mercoledì 15 novembre 2023

La dittatura dell'ipse dixit

Abbiamo la fortuna – o la sventura a seconda dei punti di vista – di vivere in tempi assai interessanti, come recita un proverbio cinese per definire le epoche turbolente. L'aspetto particolare che volevo prendere in esame oggi, è quello dell'ipse dixit.

Per coloro che non sapessero a cosa mi riferisco, riassumo la sua origine in poche righe. Nell'antica Grecia (stando a Cicerone), il suo corrispettivo greco era utilizzato nella scuola di Pitagora riferito a quest'ultimo, per convalidare le affermazioni di chi parlava. In epoca medioevale la formula fu adoperata in relazione ad Aristotele, considerato la massima autorità in campo filosofico. In parole povere, ci si richiama all'autorità di qualcuno – vivente o vissuto – in un dato campo, per validare le proprie tesi.

Tutto questo però, come influenza il mondo di oggi? È presto detto. Oggigiorno, viviamo una problematica duplice e in un certo senso anche ossimorica. Da un lato, esiste un quantitativo sterminato di imbecilli che si credono tuttologi: pur ignoranti di un dato argomento, aprono bocca per dire immani bestialità senza nemmeno rendersene conto. In alcuni casi capita anche con persone colte che – per dirla in francese – cagano fuori dalla tazza e s'inoltrano in campi che non conoscono, credendo che la loro conoscenza pregressa di altri argomenti possa bastare per parlare con cognizione di causa. Per esempio, ho sentito spesso antropologi, politici o altri demonizzare i videogiochi senza aver mai letto una riga a riguardo e/o senza averne mai toccato uno, paragonandoli al gioco d'azzardo. Oppure sedicenti critici letterari e scrittori in erba a dir poco insipienti, che hanno letto e scritto poco o nulla e pretendono di pontificare sulla scrittura creativa, nonché di insegnare qualcosa a chi scrive da anni.

Il secondo aspetto di questo male, ad esso opposto, è appunto l'ipse dixit. Si prendono le affermazioni di un individuo che possiede magari un titolo di studio, e ci si limita a dire: «Eh, beh l'ha detto il dottor tal dei tali… lui lo sa, dev'essere così».

Un ragionamento da stupide pecore, a voler essere anche generosi. Chi si richiama all'ipse dixit nella sua forma più becera senza produrre dei ragionamenti propri – perché pigro o magari privo degli strumenti culturali adeguati – contribuisce a diffondere questa specie di cancro della ratio, come mi piace definirlo. Al di là della mancanza di spirito critico di chi si affida ciecamente all'ipse dixit, l'altro grande problema è che gli altri, anche qualora colti e titolati, non sono infallibili. Se tu ti basi sull'autorità di qualcuno, e poi si scopre che quel qualcuno ha detto un'enorme fesseria, ecco che ti crolla tutto addosso. Di coloro che hanno assistito agli eventi susseguitisi negli ultimi tre anni, chi è dotato di un cervello funzionante sa perfettamente a cosa mi riferisco, perciò mi fermo qui.

L'unico caso in cui l'ipse dixit può sembrare uno strumento legittimo, è quando si concretizza una serie di condizioni: primo, chi parla conosce bene l'argomento. Secondo, si serve della propria ragione per confermare la posizione della fonte autorevole, seguendo ragionamenti logici e se necessario fornendo dati e prove. Terzo – facoltativo ma auspicabile – la persona attinge a più fonti autorevoli e non a una soltanto, poiché ciò rafforza ulteriormente la sua posizione. Se lo dice uno scienziato, benissimo, ma se lo dicono una dozzina, è ancora meglio. Lo stesso si può applicare in ambito medico, letterario, bellico o qualsiasi altro campo dello scibile umano. Purtroppo però, come ho anticipato, anche in questo caso l'ipse dixit non è un metodo che si dovrebbe seguire, in quanto specioso. Ciò non soltanto perché anche più individui possono sbagliare in buona fede, ma perché nel peggiore dei casi potrebbero essere stati “comprati” per mantenere un'unica linea di pensiero. A mio avviso, occorre quindi evitarlo in toto.

Quindi perché “dittatura” dell'ipse dixit? Semplice… quando si utilizza tale formula a livello istituzionale – proponendo i Pitagora e gli Aristotele della situazione come infallibili – ogni dibattito diventa non solo impossibile, ma vietato dall'autorità stessa. Chiunque non si adegui all'ipse dixit calato dall'alto – che genera ciò che alcuni chiamano “pensiero unico” o “mente alveare” – diventa un ignorante, un “complottista” o persino un pericoloso pazzo. In sintesi, diviene un “nemico della società”. Con questa metodologia è possibile – oliando i giusti ingranaggi – spacciare assurde bestialità come il frutto della “scienza” senza che la gente ignorante – che si limita ad applicare ciecamente l'ipse dixit – si ponga domande. Anche perché, chiunque se le ponesse finirebbe in un vero e proprio tritacarne sociale, a prescindere da quanto possa essere illustre.

Giungiamo alla conclusione. Esiste però un punto d'incontro a dir poco mefistofelico tra questi due atteggiamenti all'apparenza così diversi e antitetici: gli ignoranti tuttologi e gli ignoranti dell'ipse dixit. Cosa succede quando la prima categoria, invece di sparare nozioni a caso, si serve dell'ipse dixit come la seconda per legittimare le sue posizioni, magari senza mai aver aperto un libro sull'argomento in questione?

Amici miei, la risposta è semplice: si ha la morte di duemila anni di logica aristotelica e la distruzione del pensiero critico. Se invece – peggio ancora – a fare ciò è chi si trova in posizioni apicali della società e, pur sapendo perfettamente di mentire prosegue nella sua vile opera, tale formula diventa, come da titolo, la dittatura dell'ipse dixit.


martedì 19 settembre 2023

Sono ancora vivo!

Torno con qualche aggiornamento dopo una lunghissima assenza (dovuta principalmente alla pigrizia e ad altri impegni).
Anzitutto, il mio racconto cyberpunk Neo Babylon - finalista nell'edizione n. 63 del NeroPremio - è stato inserito in un'antologia gratuita intitolata: Una vita minerale. Potete scaricare l'e-book qui. Mi spiace soltanto che non sia la versione più aggiornata, in quanto ho ulteriormente rifinito il brano che ora è nella sua versione definitiva.
Per quanto riguarda Discesa nelle tenebre, il mio racconto horror si è piazzato al terzo posto nell'edizione n. 70 del NeroPremio e sarà inserito in una futura raccolta, edita da Silele Edizioni.
C'è poi un'altra realtà letteraria della quale sono entrato a far parte di recente: si tratta del gruppo ufficiale di Lovecraft Italia, gestito da e per i più grandi appassionati ed estimatori del Solitario di Providence. Abbiamo cominciato a sviluppare un'idea di universo narrativo condiviso simile ai "Miti di Cthulhu" del Maestro, ma con una nostra cosmogonia, pur restando sempre nella tradizione dell'horror/weird e del neogotico (e senza disdegnare eventuali incursioni nel fantasy stile Howard). Nel mese di novembre dovrebbe uscire (salvo imprevisti) il terzo volume della raccolta Strani Aeoni, edita da Colomò Editore, che conterrà il mio racconto horror/weird Sulle tracce di J.P. Kane.
Per quanto riguarda il mio progetto più importante, la trilogia di Dèi e uomini - che ha subito parecchi ritardi - spero di poter comunicare qualche novità editoriale nel corso dei prossimi mesi. Nel frattempo non ho grattato la pancia ai macachi, né pettinato le bambole: nei tre anni passati dalla fine della prima stesura ho spinto all'estremo il labor limae e ho perfezionato il romanzo al meglio delle mie capacità. Oltre a ciò, qualche mese fa ho terminato la prima stesura del secondo volume, che però richiederà ancora molto lavoro in termini di revisioni. In parallelo ho inoltre completato tutte le mappe del mondo della trilogia (incluse le regioni relative al terzo libro).
Conto di iniziare la stesura dell'ultimo volume l'anno venturo, anche perché mille altri progetti più o meno entusiasmanti mi affollano la testa, e non vedo l'ora di concretizzarli tutti.
Alla prossima!



M.G.


venerdì 8 aprile 2022

Un rapido aggiornamento

 Su Amazon è disponibile "Figlio del tuono", un'antologia che raccoglie i migliori racconti delle edizioni dalla 60 alla 62 del concorso NeroPremio, e che contiene una versione ridotta di un mio vecchio racconto post-apocalittico intitolato "Lacrime e pioggia".


Potete trovare la raccolta qui. Non sono sparito. Alla prossima!

domenica 12 settembre 2021

Il Giappone e il cyberpunk

È doveroso aprire questo breve saggio citando uno dei fondatori di tale sottogenere della fantascienza, William Gibson: «Il Giappone moderno era semplicemente cyberpunk. I giapponesi stessi lo sapevano e ne erano deliziati. Ricordo il mio primo assaggio di Shibuya, quando uno dei giovani giornalisti di Tokyo che mi aveva portato lì, il suo viso inzuppato nella luce di mille soli dei media – tutte quelle imponenti strisce di informazioni commerciali – disse: “Vedi? Vedi? È la città di Blade Runner”. E lo era. Lo era così palesemente». 

Ciò che risulta più interessante è che il cyberpunk giapponese non nacque in risposta allo stimolo occidentale, quanto piuttosto in parallelo e in maniera del tutto indipendente nei primi anni ottanta, principalmente nei circuiti di cinema underground. Si ritiene infatti Bakuretsu toshi (1982) di Sougo Ishii la pellicola iniziatrice del genere, sebbene la vera codifica del genere giunse con Tetsuo (1989), di Shin'ya Tsukamoto. 

Il cyberpunk giapponese delle origini comprendeva di solito tra i temi ricorrenti la mutazione, la tecnologia, la disumanizzazione, la repressione e la devianza sessuale. Fu soltanto col suo approdo all'interno di opere tipicamente nipponiche, come manga e anime, che esso subì una certa evoluzione, purtuttavia mantenendo i punti di contatto con il suo corrispettivo occidentale. Ed è qui il nocciolo della questione: il cyberpunk si è evoluto in occidente così come in oriente più o meno allo stesso modo, presentando spesso elementi, tematiche e situazioni comuni, questo anche prima che l'uno influenzasse l'altro. Da ciò si può quindi dedurre che il cyberpunk si basi su una visione futuristica del mondo condivisa, e la ricezione positiva di pubblico e critica delle opere nipponiche nel resto del globo non fa che confermare tale tesi. 

Il suo debutto nel mondo dell'animazione in Giappone avvenne prima con Akira (1982), seguito (fra i più celebri) nel corso di un trentennio, da Ghost in the Shell (1989), Battle Angel Alita (1990), Neon Genesis Evangelion (1995), Cowboy Bebop (1997) e infine Psycho-Pass (2012). Da alcune di queste opere sono state tratte pellicole cinematografiche (come Ghost in the Shell di Rupert Sanders del 2017 e Alita – Angelo della battaglia di Robert Rodriguez, del 2019) e persino videogiochi. 

Ciò che ha reso preziosa la produzione nipponica è la sua duttilità, poiché riesce a toccare le questioni più disparate: in Alita (e ancora di più in Ghost in the Shell ) si esplorano tematiche come il rapporto tra la mente e il suo involucro; l'unione tra umano e artificiale e la natura dei sentimenti e dell'anima. Temi affrontati anche da un videogioco canadese del 2011, Deus Ex: Human Revolution, nel quale la domanda filosofica che ci si pone è: cosa ci rende davvero umani e quando si cessa di essere tali? 

Per contro, Cowboy Bebop è un anime che si compone di molti tasselli comuni al cyberpunk, pur senza concentrarsi nello specifico su nessuno di essi. C'è Ed, una piccola hacker di talento, Faye, la donna senza memoria, che simboleggia il legame con il passato; Jet, che ha cercato di costruirsi dei nuovi valori perché deluso da quelli tradizionali. Infine Spike, un uomo in guerra con se stesso e alla ricerca di un'unica risposta e di una sola donna in tutto il sistema solare. Tra il degrado delle colonie e la miseria della vita, ci si prospetta un universo narrativo dominato da espedienti e dalla criminalità, così come da ecoterroristi e sette religiose New Age. I protagonisti si muovono su uno sfondo dalle mille sfaccettature mai banale, complice anche la scelta di presentare molti episodi come storie indipendenti e drammatiche. 

Psycho-Pass infine, è nato dal genio di Gen Urobuchi, noto anche per i celebri Puella Magi Madoka Magica e Fate/Zero. Se Cowboy Bebop presenta un'ambientazione spaziale tra Marte e i satelliti gioviani che contiene una forte pastiche, Psycho-Pass sceglie invece di concentrarsi sui drammi di una società orwelliana dominata dal sistema Sibyl; esso calcola il coefficiente di criminalità delle persone, divenendo a tutti gli effetti un valido metodo di controllo e repressione delle masse. Tra i temi portanti vi sono infatti la legittimità del sistema stesso, la sua interferenza con il libero arbitrio del singolo e il rapporto tra i benefici e il prezzo che esso comporta. 

In conclusione, pur mantenendo una propria identità stilistica e concettuale che si è evoluta negli ultimi quarant'anni, il cyberpunk nipponico è indiscutibilmente legato a doppio filo a quello occidentale; è segno forse che la visione del futuro, nonché i sogni e le paure dell'umanità tra distopia, tecnologia e digitalizzazione, sono universali e condivise molto più strettamente di quanto non si pensi.


sabato 5 giugno 2021

Turpiloquio: contro il buonismo becero e il politicamente corretto

 Prendendo spunto da una discussione nata sul forum per scrittura che frequento, Inchiostro diVerso, oggi vi propongo il mio intervento in merito in quel thread, anche perché si tratta di un tema che mi sta molto a cuore: la libertà di espressione e il linguaggio.


Io la penso esattamente come Stephen King in merito: il turpiloquio ha un suo uso come qualsiasi altra forma espressiva, purché appunto abbia un suo scopo, che sia chiaramente manifesto o tra le righe. Conferisce colore e personalità a un testo, a prescindere dal suo genere e dalla sua natura.

Per quanto mi riguarda, il turpiloquio è necessario per conferire realismo e per caratterizzare i personaggi. Quale autore sano di mente farebbe dire a un mafioso "cavolo" o "poffarbacco!"? Solo uno disonesto o un imbecille.
King stesso è un grande esempio in quanto è stato spesso bersaglio della critica proprio per le libertà che si è sempre preso. Ci sono esempi razzisti ("Non ci prendono bene i musi neri da queste parti"), o semplicemente volgari perché il personaggio era volgare ed era giusto così ("Scendiamo da questa cazzo di Dodge").

In ultimo, ricordo che persino la mia professoressa di spagnolo madrelingua al liceo sosteneva che il metodo più facile e rapido per cominciare a familiarizzare con una lingua sia di imparare le "parolacce". Infatti ce ne insegnò diverse in spagnolo proprio al primo anno! Ne imparai anche qualcuna dal nostro professore di latino, come "Filius mater ignota" e il classico senza tempo "Caput mentole". 

In conclusione, anche nel parlato di tutti i giorni le uso spesso per rafforzare concetti e non mi faccio alcun problema a scriverne, sempre con cognizione di causa. Tra l'altro si possono esprimere gli stessi concetti anche senza suonare volgari ("Lei è un pezzo di materia fecale dotato di locomozione", questa è mia), ma non sempre suonare aulici nelle offese è ciò che fa al caso nostro in un testo di narrativa.
Senza nulla togliere a coloro cui non piace usare il turpiloquio, vorrei fare un parallelo con uno sviluppatore di giochi hentai (erotici) che conosco: una volta su discord parlando della tematica del sesso come tabù nella società odierna, asserì che esso può essere uno strumento narrativo importante tanto quanto gli altri e dovrebbe avere pari dignità. Nello specifico disse che, nel suo ambito (quello videoludico, dove il sesso è tabù molto più che nei film eccetto nei giochi per adulti), c'è una bella differenza tra l'avere la possibilità di inserire il sesso se si vuole e il non averne la possibilità perché si verrebbe censurati. Affermava che si perde l'occasione di aggiungere un altro strato alla narrazione.

Tutto questo per dire che sono perfettamente d'accordo e che lo stesso, identico discorso si può fare per il turpiloquio. La società è troppo moralista e bigotta per i miei gusti, lo è sempre stata da quando sono entrato nell'adolescenza, ma con gli anni l'esperienza non ha fatto altro che rendermi sempre più intollerante verso tutti questi atteggiamenti buonisti o di politicamente corretto. La stessa parola "negro", censurata e demonizzata ovunque, si ritrova in spagnolo, "nigro" che significa letteralmente "nero", così come "nigrum" in latino. L'accezione razzista è arrivata solo in tempi relativamente recenti, in particolare nell'America degli anni '60. King stesso affronta questa tematica nella sua saga "La Torre Nera", dove uno dei personaggi principali, Susannah/Detta/Odetta è una nera degli anni '60, durante i quali gli afroamericani esecravano espressioni come "nero" o "di colore" e si sentivano orgogliosi nel chiamarsi "negri" loro stessi. Ciò che si dovrebbe demonizzare, a parer mio, non è la parola in sé, ma l'uso che se ne fa. Esattamente come non è un'arma a uccidere, ma chi la impugna. Mi batterò sempre per questo.

Avrei da spendere due paroline anche su quelle indefesse femministe italiane che ultimamente sono riuscite a vincere la loro crociata e a far rimuovere dalla Treccani alcune espressioni associate alla donna che secondo loro sono "misogine", come "cagna". Ecco, qui vale il medesimo discorso. Io stesso ho usato un paio di volte questo termine in un mio romanzo, e con cognizione di causa (in un caso è una donna che rivolge l'epiteto a un'altra donna, nel secondo è un uomo), ma ciò non significa che io sia misogino. Semplicemente, la situazione lo richiedeva per essere realistica ed esprimere l'odio che i personaggi in questione provavano gli uni per gli altri. Si può dire che anche il dialogo scurrile possa far parte in un certo senso dello "show don't tell", mostrando al lettore delle emozioni senza dovergliele spiegare. 

Inoltre, Robert E. Howard usava a iosa l'epiteto "cane" nei suoi racconti di Conan il Barbaro circa un secolo fa... a questo punto è lecito domandarsi: perché le femministe si battono per la parità di diritti e di trattamento, ma poi vogliono anche un trattamento di riguardo? Allora rimuoviamo anche la declinazione al maschile come offesa. Scusate eh, ma io disprezzo in egual misura sia i maschilisti che le femministe, entrambi parte di un unico sottoinsieme: quello degli imbecilli. Non vedo perché la mia lingua (o qualsiasi altra se per questo) dovrebbe venire sistematicamente stuprata (posso usare questo termine in senso figurato? Grazie!) a causa di una minoranza di persone che vogliono imporre le loro idee al prossimo.
In sostanza, questo politicamente corretto a tutti i costi secondo me rischia un giorno di pregiudicare perfino la ricchezza del nostro lessico e la libertà di espressione. Chissà, magari un domani persino la satira sarà illegale... c'è molto su cui riflettere, a parer mio.

giovedì 20 maggio 2021

Addio, maestro Miura...

 

L'indimenticabile Squadra dei Falchi


Da dove cominciare quando si parla di un grande uomo, un grande artista, che però non si è mai conosciuto se non attraverso il suo lavoro? Un'impresa difficile, ma alla quale non posso sottrarmi in alcun modo, avendo un debito nei suoi confronti. Solo stamani, due settimane dopo il fatto, mi è giunta la notizia della morte del celebre mangaka e creatore di Berserk, il 6 Maggio 2021, il quale lascia il suo magnum opus incompleto e un grande vuoto nel cuore di tutti i suoi fan nel mondo. Un evento triste che anni fa accadde anche alla morte di Robert Jordan, ma grazie a Brandon Sanderson i lettori riuscirono a vedere la conclusione della celebre saga fantasy "La Ruota del Tempo". Sarà anche il caso di Berserk? Credo che tutti i suoi fan se lo auspichino, sebbene nell'arte figurativa del disegno vi siano più complicazioni rispetto alla letteratura.

Berserk fu serializzato per la prima volta in Giappone, neanche a farlo apposta, nel 1989 (anno di nascita del sottoscritto, come fosse un segno), ma giunse in Italia soltanto nel 1996. Il mio personale rapporto con l'opera iniziò a causa di mio fratello maggiore che all'epoca la seguiva e, all'età di 15 anni, cominciai a mia volta a leggerlo e ne rimasi stregato. Io non ho mai conosciuto l'uomo dietro ai disegni, ma posso dire di aver conosciuto intimamente l'artista attraverso di essi, ed egli mi ha influenzato molto (forse quanto degli scrittori veri e propri) negli anni della mia formazione e oltre.

Il manga (o fumetto), racconta le vicende di Gatsu (reso in inglese come Guts), un bambino che una compagnia di mercenari trova sotto l'albero al quale è impiccata la madre. I vagiti suonano come un inno alla vita, in contrasto con la morte che circonda il nuovo nato, e il piccolo viene cresciuto e addestrato a combattere fin dalla più tenera età. Nato dalla morte e come tale a essa più vicino di chiunque altro, Gatsu vivrà una vita cruda e difficile che temprerà il suo carattere. Senza narrare tutte le vicissitudini di una storia che potrebbe restare priva di conclusione, vorrei spendere due parole su ciò che mi ha sempre colpito dell'opera e di Miura stesso, spingendomi a considerarlo uno dei più grandi mangaka di tutti i tempi.

Contrariamente alla maggior parte dei disegnatori nipponici, Miura scelse di rappresentare un mondo dark fantasy profondamente ispirato al Medioevo europeo, seppur calcando la mano sul lato violento e oscuro e dipingendolo come esageratamente oscurantista. Al di là dell'immensa perizia dimostrata nei disegni (specie quand'era più giovane) e dell'ambientazione di forte stampo occidentale, ciò che ha contribuito in larga misura a rendere la sua opera grande sono i contenuti. Mentre molti mangaka e fumettisti, seppur bravi, sono pur sempre "solo" disegnatori (come Yoshiro Togashi o il celebre Akira Toriyama), Miura possedeva quel qualcosa in più che lo elevava. Di cosa si tratta? Semplice, la vena autoriale. Un parallelo simile si può tracciare con Hideo Kojima nel mondo dei videogiochi: non è "solo" uno sviluppatore ma anche uno scrittore. Si potrebbero fare esempi anche in ambito cinematografico o musicale, ma credo di aver reso l'idea.



Gatsu nell'arco della Squadra dei Falchi


L'autorialità non è qualcosa che si impara, a mio avviso, ma qualcosa che o si possiede o non si possiede; potreste vederla come un aspetto del talento. Al di là degli innumerevoli simbolismi a cui Berserk ci ha abituato, più o meno palesi (rimandi a Odino, Tyr, ai sette peccati capitali...), vi sono anche molte tematiche che si riscontrano nel corso della storia. La concezione del libero arbitrio come illusorio, la violenza come motore che muove il mondo, lo scontro tra la fede nuova e la vecchia (penso qui al rapporto tra i chierici e la strega Shilke); l'idealismo di un mondo perfetto asservito alle ambizioni di un solo uomo, e così via. 

Vi è una crescita marcata nei personaggi più importanti (enorme se paragonata a molti altri fumetti), vi sono pathos e piccoli momenti di lirismo, quasi filosofici, che finiscono per guarnire una torta di carne e sangue. Al contrario di molte opere, Berserk non propone una violenza gratuita ma, come accade nelle opere migliori, ha un motivo di essere ed è spesso sia fonte di determinazione che di disperazione per i personaggi. Dà loro motivazione, li spinge a interrogarsi sul perchè il mondo è così crudele, su come si possa opporsi a esso se non contrapponendo alla violenza altra violenza. In tutto ciò però, Miura riesce anche di tanto in tanto a farci sorridere, senza dimenticare un lato leggero, in genere portato avanti dall'elfo Pak (o Puck) e dal giovane Isidoro. 

Dopo questa doverosa premessa, giungo al come Berserk sia stato nel corso degli anni (e ancora sia) per me fonte di ispirazione. Fin da ragazzino non ho mai avuto una vita facile e, sorvolando sugli episodi personali, rivedevo molto di me stesso in Gatsu e nella sua solitudine. Oltre a ciò, l'opera acuì il fascino che già provavo per l'epoca medioevale e il fantasy e mi spinse, a 15 anni, a produrre uno dei miei primissimi manoscritti (che conservo ancora da qualche parte). Il protagonista ricordava un po' me e un po' Gatsu e "Il Cavaliere Nero" fu quella che ancora oggi considero la mia prima storia importante. La scrissi in un periodo davvero buio, nel quale andai anche in depressione e mi fermai a tanto così dal suicidio, un attimo di lucida follia adolescenziale che non scorderò mai. 

Berserk mi fornì quindi l'ispirazione per creare un mondo simile a quello di Miura, tragico e violento, desolato, che rappresentava in un certo senso il modo in cui vedevo la mia vita; si trattò anche di una valvola di sfogo che mi evitò di impazzire e abbandonarmi alla disperazione. Scrivere quel romanzo acerbo (anche se allora non potevo saperlo), fu un po' come spurgare una ferita infetta e lasciar uscire tutto il male che vi si era accumulato. Non so se avrei scritto la medesima storia senza Berserk ma mi piace pensare che, anche se sempre cupa, sarebbe stata certamente diversa.

Negli anni mi cimentai in vari romanzi di formazione nell'ambito di un fantasy più tradizionale (feci anche una breve escursione nella fantascienza). Ora che sono giunto a una maturità stilistica e intellettuale sufficiente però, ho creato un nuovo mondo e un nuovo cavaliere nero come protagonista, stavolta tutto mio, che forse il grande mangaka avrebbe apprezzato: una saga dark fantasy a cui ho accennato più volte nel blog, dal titolo "Dèi e uomini". Sono tornato quindi alle origini, come un figliol prodigo, producendo al meglio delle mie capacità ciò che amo di più. E sebbene Miura sia stato un fumettista, come ho detto era nel profondo anche uno scrittore e, come lui, spero un giorno di poter dare anch'io il mio contributo (per quanto modesto) al genere dark fantasy e a renderlo grande.

Grazie di tutto, maestro Miura. Quando ci vedremo dall'altra parte, ti chiederò di raccontarmi il finale della tua storia...


Artwork di AnatoFinnstark ("Guts: Beast of Darkness)

 


domenica 16 maggio 2021

Rapido aggiornamento

 A causa di questioni personali di alcuni membri dello staff di Chiacchiere Letterarie, l'uscita del terzo numero della rivista è stato spostato a dopo l'estate... nel frattempo ho pubblicato in anteprima il racconto cyberpunk che avevo preparato per la rivista, "New Babylon", sul forum di Inchiostro diVerso (trovate il collegamento tra i link utili sul lato destro della pagina). Spero di invogliarvi a frequentare il forum... e magari a leggere qualche mio lavoro! 😁