mercoledì 26 febbraio 2020

Il tema del viaggio nel Fantasy


Come avrete dedotto dal titolo di oggi, vorrei soffermarmi su un elemento piuttosto comune nel genere Fantasy: il viaggio. Vi sono certo alcuni romanzi che si svolgono per intero in un solo luogo, con i protagonisti che per esempio lottano contro un tiranno per liberare una sola città. Troverete però che in genere, il viaggio rappresenta quasi una regola nella maggior parte di queste storie. Perché?

Spesso anche nella realtà ci si sente dire che viaggiare "ampli gli orizzonti" o "renda di mente più aperta"... forse inconsciamente abbiamo tutti fatto nostra questa nozione (a mio avviso veritiera), pertanto l'applichiamo, consciamente o inconsciamente, ai nostri personaggi e alle nostre storie. Poiché naturalmente i protagonisti hanno bisogno di ampliare i propri orizzonti, fare esperienze, crescere e svilupparsi. La crescita dei personaggi è imprescindibile in qualunque storia che si rispetti, ma mentre ci si può anche limitare a farli sviluppare attraverso le mere vicissitudini che essi vivono, il viaggio fisico aggiunge un ulteriore, sottile significato metaforico al tutto (oltre che una maggiore varietà).

Penso al viaggio di Frodo e dell'Unico Anello, ai viaggi di Thomas Covenant l'Incredulo, a quelli dei molteplici protagonisti delle saghe di Shannara, e così via, e così via. Nel caso di Covenant, si trattava di viaggi che potevano benissimo essere dei sogni lucidi che faceva ogniqualvolta batteva la testa e sveniva, piuttosto che di un mondo parallelo (che è anche una delle scelte più gettonate dell'ultimo ventennio). Che si tratti però soltanto di un viaggio in un sogno, un viaggio alla scoperta di se stessi tramite eventi traumatici oppure una vera e propria odissea (Ulisse detiene il primato ancora oggi, a mio avviso), esso è sempre alla base di ogni storia fantastica che si rispetti. E come recita un famoso detto: "Conta il viaggio, non la destinazione."


Le motivazioni che spingono i protagonisti a compiere la loro odissea sono spesso variegate, che si tratti di salvare il mondo, ottenere vendetta o fuggire da se stessi. Ma anche le ragioni sono a parer mio importanti, perché in genere delineano il carattere e il passato dei personaggi, fornendoci informazioni su di loro e la capacità di identificarci in essi. E poi, specie se la storia in questione è un romanzo (quindi un lavoro corposo), necessita di una buona struttura, di motivazioni importanti che possano rappresentare un sufficiente sprone per i protagonisti. Quasi tutte le più grandi storie cominciano con un viaggio: penso anche a opere antiche, come la Divina Commedia o la già citata Odissea.

Non per sminuire storie che possono benissimo svolgersi in un solo luogo, ma intraprendere un viaggio ha sempre un certo fascino, forse anche perché oggi siamo abituati a un mondo che nasconde ben pochi segreti, ove tutti i continenti sono stati scoperti e la maggior parte dei luoghi già esplorati. Allora ecco che il viaggio in un'opera di fantasia ci apre un mondo di possibilità, un universo del tutto estraneo e sconosciuto, pieno di misteri, magia e terre inesplorate... forse questo è l'unico modo che ci resta per poter sperimentare quelle emozioni che hanno provato gli esploratori del passato, ogniqualvolta si mettevano in viaggio per terre lontane. Pensiamo a Colombo, James Cook, i pirati e tanti altri.

Ma perfino quando in un Fantasy il viaggio risulta ridotto, oppure quando i personaggi si muovono in dei territori a loro noti, per noi (almeno alla prima lettura) di certo non lo sono, perciò si mantiene viva e intatta la sensazione di avventura e della scoperta che è parte integrante del genere e forse perfino la sua linfa vitale. Siamo abituati a vivere in un mondo nel quale un mero spostamento in aereo da un paese (o per fino un continente) all'altro è considerato "un viaggio". La realtà è che il vero viaggio è quello che compierebbe qualcuno che si spostasse con mezzi molto più lenti, magari in bici o in autostop, girando il mondo. Qualcosa fuori dall'esperienza e dalle possibilità della stragrande maggioranza di noi. Quello è un vero viaggio, ed è esattamente ciò che fanno i nostri protagonisti di storie fantastiche. Muoversi a piedi o a cavallo per magiche contrade, imbattendosi in banditi, viaggiatori e ogni sorta di strane (e spesso letali) creature. Assaggiare prodotti locali, così diversi da quelli della propria terra, apprendere da culture differenti, fa tutto parte dell'enorme corredo del Fantasy.

Si potrebbe quindi definire il viaggio una sorta di bisaccia, in grado di contenere tutti gli altri fili conduttori del libro: non è il tema principale ma contribuisce in modo significativo alla storia che si va a raccontare. In ultimo, una lunga ed estenuante odissea può spesso contribuire a rendere i protagonisti più saggi, forti e lungimiranti attraverso le sfide che pone loro, oppure può trasformarli in modi meno piacevoli, rubando loro un arto o due... o nei casi più estremi, esigendo persino la loro vita.
Alla prossima!

lunedì 3 febbraio 2020

Il ruolo della magia nel Fantasy



Bentornati nel mio (nostro) spazio. Oggi vorrei parlare di uno dei tratti più caratteristici del genere fantastico... la magia. E in particolare, di come alcuni autori scelgano di metterla in secondo piano oppure di come non le diano la giusta importanza. Per estensione non intendo riferirmi puramente alla magia in quanto tale, ma anche a qualsiasi elemento magico e sovrannaturale, come creature mitiche e simili. Vi sono due esempi in particolare che mi vengono in mente quando penso a due opere che in qualche modo non concedono agli elementi magici il giusto spessore che a loro spetta nel genere. Il primo caso è quello delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco (in lingua originale "A Song of Ice and Fire"), che molti conoscono col nome de: "Il Trono di Spade". Prendiamo prima in esame l'opera di Martin.


Soffermandomi in breve sui pochi difetti (o almeno quelli che io considero tali) nell'opera dell'autore in questione, vi sono le esagerate descrizioni degli abiti (di ogni singolo capo di vestiario ogniqualvolta un personaggio si cambia), forme passive e avverbi e appunto, il risicato elemento magico.
Il Trono di Spade è una grande saga (o almeno lo sarà se Martin si degnerà mai di finirla), con moltissimi pregi. Vi sono personaggi estremamente credibili e caratterizzati in maniera superba, come il nano Tyrion Lannister, uno dei miei preferiti (e di quasi tutti i lettori presumo). Martin ha dato prova di essere molto abile nel World Building, rendendo credibile e concreto il mondo del Trono e dei suoi personaggi. Inserire così tante casate, ciascuna con i suoi stemmi, il suo glorioso passato e le proprie mire in relazione al trono dei Sette Regni non è cosa facile. Ma è proprio qui che si mostra l'altra faccia della medaglia.

Nonostante l'ottimo lavoro nel costruire qualcosa di credibile, l'autore relega l'elemento magico a un ruolo di secondo piano per la gran parte della saga: si inizia con l'apparizione degli Estranei nel prologo del primo libro, ma poi passano interi volumi prima che vi siano sviluppi in tale senso. Nel momento in cui scrivo, Martin dovrebbe essere al lavoro sul sesto libro (non mi sono più preoccupato di rimanere aggiornato, lo ammetto); fino al quinto tomo gli elementi magici sono davvero pochissimi e si lascia maggior spazio agli intrighi di corte e ad altri accadimenti. Tanto che, se non fosse per gli Estranei, i draghi e tutto ciò che si vede praticamente alla fine della serie televisiva, si potrebbe quasi scambiare l'opera per un romanzo storico con la sola ambientazione fantasy: il codice dei cavalieri, le giostre, le casate, il rapporto tra le classi dei poveri e quelle dei più ricchi... tutto sembra rappresentare in modo perfetto il Medioevo. Sebbene io sia un convinto sostenitore dell'importanza del realismo, un eccesso può recar danno quanto l'opposto.


Sean Bean nel ruolo di Ned Stark

Sebbene possa essere (e forse lo è) una scelta consapevole dell'autore, non la condivido. Se si vuole scrivere un romanzo dal sapore storico come Ivanhoe non si fa ricorso alla magia. Ma se si vuole scrivere un'opera fantasy, si deve sfruttare l'elemento magico ed esso deve essere centrale o quantomeno predominante, come lo è in Harry Potter o Il Signore degli Anelli. Non una mera, pidocchiosa didascalia alla fine della storia. Ciò mi porta al mio secondo esempio, ove pur essendo la magia centrale, di fatto non sembra essere quella forza primordiale che dovrebbe essere, in grado di travolgere chi ne fa uso. In un certo senso, in questo caso ha il sapore di un "contentino" che l'autore concede ai lettori. Mi riferisco all'interminabile ciclo di Shannara di Terry Brooks.

Da ragazzino ho letto tantissimi volumi (alcuni anche qualche anno fa, quando provai a continuare la sua saga) di Brooks. Non mi dilungherò su critiche stilistiche o di altro genere in quanto non sono il tema del blog, ma andrò dritto al punto: la magia non dà la sensazione di essere magia. Per esempio, vi sono diversi druidi nel corso dei vari libri che svolgono un po' il ruolo di Gandalf, mettendo insieme gli eroi, lavorando contro le forze del male e via discorrendo. Ebbene, tali druidi però risultano essere sempre delle specie di maghi da quattro soldi. Cosa intendo dire con questo? Voglio dire che il massimo che questi potenti stregoni (in grado col Sonno Magico di ibernarsi attraverso le ere) sono in grado di fare è di far scaturire qualche patetica fiammata di fuoco verde dalle dita per eliminare piccole schiere di nemici, ma che perlopiù fuggono.

Vi sono altri personaggi poi che usano differenti tipi di magia, come la Spada di Leah, una lama incantata che non sembra essere granché, il Canto Magico, spesso usato soltanto per tessere illusioni. O la stessa Spada di Shannara, che contiene l'astratto potere "della Verità". Tutti i tipi di poteri dipinti da Brooks nelle sue opere danno sempre la sensazione di essere davvero buttati lì tanto per poter dire che la magia c'è. Almeno per quanto mi riguarda, fin da ragazzino quando cominciai a leggere i suoi lavori, sono sempre rimasto deluso da tale aspetto.

Ritratto dei protagonisti di "Wards of Faerie":

"Allora come dovremmo descrivere la magia?" chiederete voi. Beh, con più passione. La magia di Brooks è una magia pigra, persino la Rowling se l'è cavata molto, molto meglio di lui in questo. Si può optare per una magia "realistica", che richiede ingredienti e rituali ma che poi ha effetti concreti sul mondo fisico, a breve o lungo termine. Si può attingere a piene mani da Dungeons & Dragons e dai videogiochi fantasy, dove i personaggi sono in grado di evocare creature, non morti, colonne di fuoco o barriere protettive. Si può anche scegliere una via mediana tra queste, ma la cosa importante da ricordare è sempre che "il prezzo da pagare per la magia" non dovrebbe essere l'unico elemento importante. Nelle sue opere, Brooks pigia continuamente lo stesso tasto, su come vi sia un prezzo da pagare per poter usare certi poteri... ma poi quei poteri risultano essere deludenti. Dov'è il dramma? Dov'è quel pizzico di sana esagerazione che rende la fiction tale?

Mi viene quindi in mente un videogioco dal titolo "Soul Sacrifice" che giocai anni fa. In quell'universo, i maghi erano in grado di usare molteplici poteri e combattere contro enormi creature da incubo che avrebbero eliminato un comune mortale in un battito di ciglia. Come potevano farlo? Come avrete immaginato dal titolo, col sacrificio della propria carne (e gravi conseguenze sulla psiche, o la loro anima). I poteri più grandi potevano richiedere persino un occhio o un braccio dell'evocatore. Diciamo pure che quel gioco rappresenta un estremo, ma almeno si tratta di un'idea interessante che rende tali magie e capacità potenti e terrificanti, non solo nel loro effetto finale sul bersaglio, ma anche nel prezzo da pagarne. Nei libri di Shannara invece, i protagonisti sembrano sempre pagare un prezzo troppo alto in proporzione a ciò che sono in grado di fare. Insomma, nei mondi di Brooks il gioco non sembra valere la candela.

Per quanto mi riguarda, mi piace che nelle mie storie, la magia e l'elemento sovrannaturale in generale siano una via di mezzo tra lo stile "D&D" e quello ritualistico che richiama elementi a noi più familiari, come il Voodoo, la tradizione celtica o la classica figura della strega col calderone dell'immaginario collettivo. Gli incantesimi devono essere potenti, pericolosi, piegare le leggi della fisica e risultare una forza della natura. Fintanto che l'autore sia in grado di giustificarla bene a livello di World Building e non la renda eccessivamente potente, l'unico limite è la propria immaginazione. Per usare una metafora un po' volgare, la magia di Brooks è un come un peto striminzito in una gara di scorregge.

Quindi, in definitiva... qual è il ruolo della magia? Arricchire il mondo che si va a costruire, conferire poteri misteriosi quanto affascinanti a protagonisti e antagonisti, rendere la storia più varia ed esotica. In aggiunta, la magia può sempre essere uno spunto di riflessione sul potere. Può essere il fulcro della narrazione, oppure esserne parte integrante purtuttavia senza esserne il centro nevralgico. Quale che sia la scelta dell'autore, essa non deve mai, mai dare la sensazione di essere "di poco conto" o "fare da tappezzeria".



Come sempre, ci tengo a sottolineare che nei miei post espongo la mia personale visione delle cose, che concerna la scrittura in generale o degli aspetti specifici di quest'ultima. 
Alla prossima!

Artwork di Drizzt DoUrden: