lunedì 20 luglio 2020

Sulla scrittura (Cap. 1: Considerazioni generali)

Ehilà! Visto che ho pubblicato in un forum, in undici capitoli, un mio saggio sulla scrittura creativa che buttai giù nel lontano 2014, ho deciso di riportarlo anche sul mio blog nella stessa versione riveduta e corretta. Ho pensato potesse essere una buona idea, non avendo al momento spunti per nuovi articoli da proporre. Spero troverete qualcosa di utile nei post che seguiranno nelle prossime settimane!




Capitolo I: Considerazioni generali

Affrontare un tema scabroso come la scrittura creativa non è impresa facile nemmeno per un addetto ai lavori, che si tratti di uno scrittore professionista, di un insegnante o di chi ha lavorato una vita nell’editoria. Per un autore esordiente quindi, potrebbe sembrare persino una pretesa frutto del proprio narcisismo o di una smodata superbia. Forse ad alcuni di voi sembrerà così. Io credo invece che si tratti di cercare un modo per dare voce a qualcosa che forse non riusciremo mai a comprendere appieno nemmeno noi, che scriviamo storie. Qualcosa di potente, ineffabile e colmo di un grande mistero.

Se dovessi usare un’espressione del tutto avulsa al contesto accademico, direi che “scrivere è vera magia”. Si tratta in un certo senso di stabilire una connessione con una realtà diversa, un’attività che somiglia a una versione interiorizzata delle pratiche misteriche dei culti religiosi più disparati della storia umana.

Mi piace chiamare questo posto “l’Altrove”. Si tratta – o almeno così me lo figuro io – di un luogo non dissimile dal mondo delle idee teorizzato da Platone, dove appunto queste visioni germogliano e prendono forma, per poi farsi strada nella mente di alcuni di noi, gli scrittori. In tal senso si potrebbe dire che essi abbiano il ruolo di oracoli, che mediando con l’Altrove, portando tali meraviglie nella nostra realtà e condividendole con tutti gli altri.

So che può sembrare pomposo, forse anche presuntuoso – e probabilmente lo è – ma è così che la vedo io. Un’altra immagine che mi piace – forse meno suggestiva ma altrettanto efficace – è quella che vede lo scrittore come un individuo che scopre di essere provvisto di una piccola antenna. Una volta sintonizzata – quando comincia a scrivere – inizia a ricevere misteriosi segnali criptati e spesso disturbati, forse provenienti dallo spazio profondo. Man mano che la sua abilità e concentrazione crescono, impara a sintonizzarsi sempre meglio e a decodificare con più precisione i segnali che gli arrivano, traducendoli in storie sempre migliori. In ogni caso, trovo che entrambe siano delle valide chiavi di lettura del ruolo dello scrittore: un semplice tramite tra la nostra realtà e un’altra.


Per coloro che si domandino – come succede per qualsiasi campo – se romanzieri si nasca o lo si diventi, la mia personale opinione in merito è che la verità sia nel mezzo. Oltre ai fattori sociali ed economici e alla famiglia in cui si cresce, vi sono migliaia di altre variabili da considerare e alcuni di noi forse, anche possedendo delle grandi doti, potrebbero non scoprirlo mai solo perché “non è successo”. A mio avviso c’è un certo grado di predisposizione in tutti noi, ma è il duro lavoro a fare il resto, tirando fuori una pietra preziosa dalla roccia, se c’è. Leggere e scrivere molto e soprattutto farlo per piacere, è la regola d’oro. Se leggete con il chiodo fisso di voler imparare qualcosa a tutti i costi da ogni lettura, dovreste cominciare a porvi delle serie domande sul perché volete iniziare a scrivere.

Di solito, amare i libri è fisiologico, sia che ne siate i lettori che gli autori. Il processo di apprendimento durante la lettura deve essere passivo, automatico, filtrato dal subconscio: dovreste leggere per leggere, non per imparare. L’apprendimento avverrà sempre senza che ve ne rendiate conto. Quando scriverete un’opera nuova, magari mesi o anni dopo, confrontandola con vecchi testi vi accorgerete della differenza, notando come avete assorbito determinati stili incorporandoli nel vostro. La creazione di un proprio stile è un cammino lungo e tortuoso ma di durata del tutto soggettiva. Per me – da quando ero dodicenne a oggi – non si è mai interrotto. Questo perché si continua ad imparare e a migliorare, fin quando si raggiunge il proprio limite oltre il quale non ci si può più perfezionare. Per questo il periodo di creazione del proprio stile è diverso per ogni scrittore.


Tornando alla lettura, se una particolare opera vi ha colpito, dopo averla terminata potrete allora passare ad analizzarne i passi che più vi hanno sorpreso, per qualunque motivo: vi hanno fatto ridere fino alle lacrime, vi ha impressionato una particolare figura retorica molto suggestiva, siete rimasti colpiti da una descrizione che nonostante il grado di dettaglio non ha spezzato il ritmo della narrazione. Qualunque cosa. Solo allora potrete esaminare il testo in modo critico e obiettivo, analizzandolo alla ricerca di qualunque cosa stiate cercando, perché vi sarete liberati delle spoglie del lettore e avrete assunto di nuovo il punto di vista dello scrittore. Prima siate lettori, poi scrittori, lasciatevi trasportare dalla storia prima di lanciarvi in critiche o di domandarvi come ha fatto l’autore a tirare fuori dal cilindro qualcosa di così fenomenale o pietoso. Alla prima lettura – a meno che non si tratti di qualcosa di inenarrabile col quale vi state sollazzando – lasciate i pregiudizi fuori dalla porta, ne gioverà il vostro apprendimento come scrittori e allo stesso tempo il piacere come lettore. Come qualsiasi altra opera, un libro dovrebbe essere valutato in linea di massima nella sua interezza solo dopo l’ultima pagina.

Anche se devo ammettere che a volte ci sono delle eccezioni: a quindici anni mi fu sufficiente leggere il prologo di “Eragon” di Christopher Paolini per giudicarlo penoso, tale e quale a ciò che scrivevo io a quei tempi se non peggiore. Motivo per cui sono grato di non essere riuscito a pubblicare nulla all’epoca, e di aver avuto quindi modo di maturare come scrittore, evitando un simile destino.


Di solito, quando analizzo un’opera dopo averla letta, cerco sempre una cosa: il perché funziona (o nel caso negativo, non funziona). Non è qualcosa di facilmente descrivibile, di solito nemmeno l’autore stesso ne conosce il motivo, eppure sebbene mi ritrovi spesso solo con un pugno di mosche, qualche volta scopro invece qualcosa di utile.
Il “perché funziona”, per renderlo in un concetto comprensibile, si può tradurre con l’espressione francese: quel “Je ne sais quoi”. Quando vediamo una bella donna e ci viene da pensare: ”Ha quel non so che…” Ebbene, il “perché funziona” è la stessa, identica cosa. Si tratta di un’inesplicabile senso di armonia che si viene a creare in un testo di prosa quando tutto è in equilibrio, quando il risultato è molto di più della somma delle sue parti.

Come dicevo, spesso è impossibile ricondurre quest’armonia a una singola causa, perciò devono essercene molteplici e riuscire a identificarne il più possibile è forse l’unico modo per gettare luce sul mistero di tale equilibrio nella narrazione. Anche nel caso non giungiate a risposte soddisfacenti, sarà valsa la pena di tentare per il fatto che la semplice riflessione possa a volte essere fonte di illuminazione. Lo stesso vale per qualcosa che chiaramente non funziona o stona. In quel caso però trovo che sia molto più facile identificare “gli intrusi”, gli elementi di disturbo che creano quella spiacevole dissonanza, un po’ come il giochino dell’enigmistica con degli oggetti che non c’entrano nulla col resto dell’immagine.

Conclusa questa dovuta digressione, posso tornare alla questione degli scrittori nati: come in ogni altro ambito, ci sono le brave eccezioni, i geni. Shakespeare, Eliot, Hemingway, Wilde e se volete continuare l’elenco accomodatevi, ce n’è per tutti i gusti. Sono quelli che diremmo nati con la camicia, perché sono partiti con un bel vantaggio sugli altri, un certo numero di lunghezze che, ahimè, non si possono recuperare in alcun modo con l’esercizio.


“Allora perché sforzarsi tanto?” obietterete voi. Infatti non c’è nessuna legge che vi incriminerà se vi accontenterete del vostro livello, tutto dipende dalla domanda fondamentale che dovete porvi. Perché scrivo? Come per qualsiasi obiettivo, le motivazioni sono pressoché infinite, tuttavia quando sentirete di avere trovato una risposta sincera, dovrete porvi i quesiti successivi: è un motivo valido? Sono disposto a rimboccarmi le maniche e a fare sul serio? E come quando raccontate, dovrete essere assolutamente onesti nel rispondere.

Se la risposta è negativa, vuol dire che volete cominciare a scrivere per i motivi sbagliati, pertanto è tempo sprecato: andate a praticare qualche sport, frequentate corsi che vi interessano, dedicatevi ad altri passatempi, alla famiglia. Fate ciò che vi interessa davvero. Se viceversa la risposta è affermativa, allora c’è molto lavoro da fare. Avete sentito bene, lavoro, perché anche se non avrete mai il coraggio di pubblicare la vostra opera, di qualunque cosa si tratti, richiederà una buona dose di fatica, che sarà direttamente proporzionale alla sua ponderosità. Scrivere può sembrare un mestiere meno faticoso di altri a livello fisico e non sarò io a cercare di convincervi del contrario, ma è un lavoro facile? Rilassante? Privo di dubbi, ansia o frustrazione? Nossignore.


Amo l’immagine che usa Stephen King, che paragona la stesura di un romanzo a una traversata dell’Atlantico in una vasca da bagno. Siete su un guscio di noce in mezzo al nulla, nessuno può aiutarvi e se cadete in acqua nessuno verrà a soccorrervi, dovete cavarvela con quello che avete (nel nostro caso con quello che sapete) e tanto dovrà bastarvi. Non ci sono trucchi per facilitarvi la traversata, né scorciatoie, perciò non cominciate neppure a cercarle, rappresentano la prima scelta di chi non è davvero motivato. Se viceversa lo siete, non vi importerà delle difficoltà, poiché le soddisfazioni che derivano dalla scrittura – anche se scrivete solo per il gusto di farlo – vi ricompenseranno sempre appieno; finché sarete onesti nel raccontare, difficilmente avrete l’impressione che qualcuno dei vostri sforzi sia stato vano. Tuttavia durante la prima stesura – o la traversata se preferite – vi assaliranno migliaia di dubbi sul vostro lavoro, sulla sua qualità e su decine di altre idiozie e non potrete sottrarvi a questo supplizio orchestrato dalla vostra ignobile mente. L’unica cosa che potrete fare sarà tirare dritto finché ce n’è, fino all’ultima parola, la sudata “Fine”.
Non guardatevi mai indietro e soprattutto, mai, mai far entrare l’influenza del mondo esterno. Anche su questo concordo in pieno con King: la prima stesura va scritta andando avanti a testa bassa e chiudendo fuori il mondo. Ricordate? Dovete essere soli durante la traversata. Ci sarà tutto il tempo di far leggere il vostro lavoro quando sarà finito. Questo significa che no, non potete far leggere nemmeno una riga a nessuno, il rischio che la sua opinione – negativa o positiva che sia, anche se in buona fede – possa influenzarvi, è del 99,9%.


Scoprirete presto che tutti i vostri dubbi erano infondati – spesso bisbigliati da una vocina malefica che magari conoscete bene – e che avete visto giusto a tenere duro fino alla fine. Di solito – almeno per me – la fine di un romanzo è quasi come un parto, doloroso ma allo stesso tempo liberatorio. Un diluvio di emozioni. Se la sensazione che provo è quella, capisco all’istante di aver fatto centro, di aver raccontato la storia come volevo raccontarla. Se poi sia un buon lavoro starà ad altri giudicarlo, ma da parte mia sarò certo di aver scritto l’opera al meglio delle mie capacità. In un certo senso trovo che il finale sia una rivelazione, come un’epifania. Il finale è il mio Dio: se si manifesta in maniera benevola, dandomi quelle emozioni forti e familiari, sono più che certo di aver raggiunto l’obiettivo che mi ero prefissato. Una sola volta mi è capitato che il finale si presentasse come una creatura deforme e maligna, a tredici o quattordici anni: cestinai quel romanzo breve all’istante.
Col tempo tuttavia, imparerete a riconoscere la cancrena nel vostro lavoro molto, molto prima, e sarete in grado di correre ai ripari. Se così non fosse, fareste meglio a cestinare per intero. Anzi, se volete la mia opinione spassionata, se dopo due o tre capitoli avete “la sensazione”, dovreste cestinare per intero senza ripensamenti e dedicarvi ad altro. Magari un racconto breve, per togliervi dalla testa il lavoro precedente.

“Che cosa sarebbe di preciso, 'la sensazione'?” chiederete voi. Quando la proverete saprete esattamente di cosa si tratta; come disse Morpheus a Neo, parlando di Matrix: “Nessuno è in grado di descriverla agli altri, devi scoprire da te cos'è”. Il massimo che possa fare – come scrittore – è darvi la metafora che a mio avviso calza di più: è come quando avvertite un lieve sapore cattivo in bocca ma sapete di esservi lavati i denti, perciò in fondo in fondo siete consapevoli che debba trattarsi di un principio di carie. Cestinare equivale ad andare dal dentista per un controllo, continuare a scrivere è lo stesso che far finta di niente.


Riguardo alla risolutezza necessaria, non mentirò su questo punto: uccidere le vostre creazioni – partorite con tanta fatica – non diventerà mai facile col passare del tempo. Casomai più difficile. In ogni caso sarà sempre uno strazio, ma aspettare di arrivare alla fine lo renderebbe soltanto un’inutile agonia… e un deprecabile spreco del vostro tempo, che è la vostra risorsa più preziosa come scrittori, ma ancor prima come esseri umani. Specie se vi rendete conto in modo cosciente che va cestinato, ma proseguite imperterriti ignorando la sirena d’allarme.

Queste sono linee guida generali, alcune delle quali andrò a illustrare in modo più approfondito nei prossimi capitoli. E se avete intenzione di calare la vasca da bagno in acqua, non posso che darvi lo stesso consiglio che vi darebbe il buon “Steve” King: dite sempre la verità. Ciò che avete visto. Una grande storia e dei grandi personaggi possono compensare tanti altri difetti.