mercoledì 25 novembre 2020

Geralt di Rivia: pecche e pregi della saga dello strigo

 Geralt di Rivia: pecche e pregi della saga dello strigo


Henry Cavill nel ruolo di Geralt di Rivia

Parecchi mesi fa ho terminato di leggere l'ultimo libro della celebre saga dell'autore polacco Andrzej Sapkowski, ma per un motivo o per un altro, non avevo pensato di scrivere un post a riguardo sul blog. Tenete presente che si tratterà come sempre di una lettura priva di spoiler legati alla trama.

Occorre anzitutto fare una breve premessa:

Nonostante si tratti di un'opera che risale agli anni Novanta, quand'ero ragazzino, la scoprii solo nove anni fa per vie trasverse. Come avrete capito da alcuni miei post precedenti, oltre alla letteratura ho svariati altri interessi, tra cui anime, videogiochi e film. Scoprii la saga di Geralt con l'uscita del secondo capitolo del videogioco basato sullo strigo, su Xbox 360, The Witcher 2: Assassins of Kings. Il primo gioco era uscito solo su PC ed era pertanto un prodotto noto perlopiù ai fan o a chi si era imbattuto in esso per puro caso. Decisi comunque di dargli una possibilità e lo comprai di seconda mano per Natale. 

Il gioco in sé non mi piacque a livello ludico per via di alcune scelte degli sviluppatori e altre pecche piuttosto evidenti (senza addentrarmi in una recensione di cui sarei benissimo capace ma che esulerebbe dal tema del post), ma ne apprezzai moltissimo la storia, i personaggi e il world building. Ora, occorre fare un salto in avanti di sei o sette anni, quando uscì il terzo capitolo su PS4. Decisi di dargli un'altra possibilità in quanto tutti ne parlavano bene, e non me ne pentii, perché mi piacque moltissimo, nonostante avesse ancora diverse pecche che si sarebbero potute limare. 

A questo punto ero già a conoscenza dell'esistenza dei racconti e dei romanzi di Sapkowski sui quali si basava il gioco, ma non avevo ancora avuto modo di leggerli. Guardai poi la prima stagione della serie TV e solo allora recuperai finalmente tutti i libri dedicati allo strigo. Che cosa ha a che fare il mio rapporto con i videogiochi e la serie TV con i romanzi? Be', tutto, dato che la mia critica parte proprio da lì: si tratta di uno dei rari casi in cui oso affermare che le creazioni derivate sono (almeno in certa misura e sotto certi aspetti) migliori dell'opera originale. Il fatto che Sapkowski stesso abbia asserito di non provare molto interesse per le opere ispirate alla sua (e di non averne nemmeno fruito), la dice lunga sulla sua spocchia... inutile dire che leggere una sola intervista all'autore mi ha portato a non nutrire per lui grande simpatia. Si tratta di un atteggiamento opposto a quello che uno scrittore, anzi, qualunque artista dovrebbe avere nei confronti di chiunque si sobbarchi il lavoro di dare lustro alla sua opera (o comunque diffonderla). 

Preferisco comunque segnalare prima i pregi della scrittura di Sapkowski, e poi elencare quelli che ho trovato essere i punti carenti dei suoi scritti, i quali mi hanno portato alla mia conclusione.  

1. Le descrizioni 

La parte descrittiva è certamente un grosso punto a favore dell'autore polacco, che si dimostra molto versatile e bravissimo nel mostrare le scene, che si tratti di un semplice bosco durante il viaggio, di una battaglia caotica o di una fortezza buia. In effetti, spesso forse si dilunga un pochino troppo, spezzando a volte il ritmo della narrazione, ma è qualcosa di perdonabile, dato che Sapkowski sa il fatto suo.

2. I dialoghi 

Il discorso diretto è in linea di massima molto scorrevole in confronto a tanti altri fantasy dalle conversazioni legnose e poco credibili, con molti botta e risposta, tanto che i dialoghi di Sapkowski mi hanno ricordato un po' quelli di Elmore Leonard. C'è poi da segnalare che nei primi volumi a volte i dialoghi procedevano troppo a lungo senza nessun movimento da parte dei personaggi, ma l'autore col tempo ha sopperito a questa mancanza, regalandoci conversazioni in genere ben strutturate.

3. Il world building 

Il mondo costruito dall'autore è eccezionale e - sebbene egli abbia introdotto e menzionato molte creature tratte dalla mitologia classica (draghi, vampiri e grifoni) - ne ha inserite alcune inedite e interessanti, inclusi appunto gli strighi, figure decisamente carismatiche e oscure. Purtroppo, come vedremo nella seconda parte, Sapkowski non ha saputo sfruttare appieno il suo mondo, ed è un vero peccato. Parte del world building è anche la situazione economica, sociale e geopolitica dei regni presi in considerazione dall'autore, e anche qui bisogna prendere atto della sua abilità, ma di nuovo, c'è un rovescio della medaglia di cui parleremo tra poco. I rapporti tra le corone, l'instabilità politica, i tradimenti, abbiamo visto tutto questo anche nelle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di Martin e, seppur tali vicende siano ben narrate e innestate perfettamente, non sono personalmente ciò che mi interessa di più in un fantasy. Sono certamente elementi che contribuiscono alla credibilità del tutto e all'atmosfera generale, ma come dicevano gli antichi, In medio stat virtus.

Veniamo ora a quelle che (almeno secondo me) sono le note dolenti.

1. L'altra faccia del world building

Abbiamo parlato delle grandi potenzialità del mondo creato dall'autore e l'abbiamo visto in positivo, ma c'è un lato oscuro: Sapkowski ha posto troppo l'accento sul lato politico, militare ed economico, trascurando quello magico e sovrannaturale. Al contrario del Trono di Spade infatti, esso dovrebbe essere quantomeno centrale in un'opera che parla di "Congiunzione delle Sfere" per spiegare l'apparizione della magia e delle creature che la popolano, e nella quale il protagonista stesso è un mutante cacciatore di mostri in grado di usare basilari incantesimi e creare pozioni. 

Bene, nel videogioco questi elementi hanno un ruolo piuttosto marcato e vengono investiti della stessa importanza di quelli politici e militari. Viceversa, nei romanzi e racconti, Geralt usa le sue pozioni una manciata di volte nell'intera saga, e si serve dei segni non più di una dozzina di volte nel corso di tutti i racconti e romanzi. Ora, può darsi che, come Martin, Sapkowski sia un fedele "tolkeniano", che vuole relegare l'elemento magico e sovrannaturale al ruolo di tappezzeria (discussione che ho già affrontato sul blog e una pratica con la quale mi trovo in disaccordo). Se è così però, perché ha creato un mondo così zeppo di creature sovrannaturali e scelto come protagonista (che protagonista in realtà non è, ma ne parleremo dopo) un cacciatore di mostri mutante lui stesso? Si tratta, a parer mio, di una contraddizione insanabile, e mi piacerebbe davvero sentire cosa avrebbe da dire l'autore in merito. 

Lo stesso Geralt, che dovrebbe cacciare mostri per guadagnarsi da vivere, nel libro passa più tempo in prigioni, o a vagabondare alla ricerca di Cirilla, che appunto a svolgere il suo lavoro di strigo. Per quanto mi riguarda, la presenza di davvero troppe poche scene con creature sovrannaturali è stata una grossa delusione, così come lo è stata la scelta di relegare tutte le informazioni sugli strighi in secondo piano, menzionandole di sfuggita come se non fossero importanti. E ancora, ci sono dozzine di mostri e creature che a volte vengono nominati e non appaiono mai, neppure nei racconti più secondari delle raccolte. Come avevo anticipato prima, un vero spreco per un world building che aveva delle potenzialità enormi. Ed è per questo che ritengo il videogioco sia più affascinante dell'opera originale: in esso, trovano posto dozzine di mostri partoriti dalla mente dell'autore che perfino sulle pagine non hanno mai avuto l'onore di comparire se non menzionati di sfuggita, e si parla senza reticenza alcuna di argomenti interessanti come la trasformazione in strighi.


2. I personaggi

Veniamo al secondo, grosso punto dolente della saga del witcher. Anzitutto, devo dire che la mancanza di Sapkowski in questo caso deriva da una sua precisa scelta, che non condividerò mai, neanche morto. L'autore ha scelto di eliminare il flusso di coscienza (adottando la focalizzazione zero, mentre io utilizzo quella interna variabile), il che almeno per me, da buon seguace di James Joyce e Virginia Woolf, è qualcosa di impensabile. Lo strumento dello stream of consciousness è ciò che ha permesso alla letteratura moderna di creare dei personaggi tridimensionali e per questo molto più profondi, credibili e ben caratterizzati. Rinunciarvi per qualunque motivo, non può far altro che danneggiarli irrimediabilmente. Se Sapkowski avesse sacrificato solo un po' dello spazio che ha usato per le descrizioni e per gli elementi diplomatici e politici dei suoi scritti per esplorare invece i personaggi (persino se si fosse attenuto alla sua scelta della focalizzazione zero), l'opera ne avrebbe giovato immensamente, a parer mio.

Geralt di Rivia 

Anzitutto, l'autore ha letteralmente sprecato un potenziale tema che avrebbe potuto sviluppare nelle sue opere, che è la discriminazione del protagonista da parte del resto della società. L'ostracismo fa qualche comparsa qua e là, come un folletto, ma è presto dimenticato, e lo scrittore non ha capitalizzato su di esso, né esplorato il passato di Geralt per conferire maggiore profondità al personaggio. Esiste un racconto i cui protagonisti sono i genitori di Geralt: esso narra di come si incontrano e vi è una parte della storia vera e propria in cui si affrontano le origini dello strigo in maniera, a mio avviso, del tutto superficiale e assolutamente deludente. O almeno, da lettore mi sono trovato molto insoddisfatto da questo aspetto. Il tratto distintivo degli strighi poi, secondo cui le loro emozioni diventano molto meno marcate, fino quasi a scomparire, è un'altra cosa che non ho mandato giù a livello di world building perché mi ha sempre dato la netta sensazione che l'autore se la sia inventata per non essere costretto a impegnarsi troppo per caratterizzarlo. Quale che ne sia il motivo, lo strigo ne ha risentito moltissimo, e risulta davvero un personaggio "sbiadito". Non riusciamo nemmeno a capire quali siano le sue convinzioni in merito alla dicotomia tra bene e male, giusto o sbagliato, perché spesso sembra agire a caso, senza alcuna bussola morale o convinzione, né ce le spiega a parole interagendo con altri personaggi (il che sarebbe stato almeno un palliativo data la mancanza di stream of consciousness). Tutt'al più finisce per chiudersi nel suo silenzio da orso e taglia la conversazione... il che potrebbe anche far parte del carattere, ma di certo non aiuta a delineare il personaggio e le sue convinzioni, dato che non abbiamo accesso alla sua mente e ai suoi pensieri. Direi che è ironico notare come il carattere da lupo solitario di Geralt avrebbe invece funzionato se l'autore avesse scelto la focalizzazione interna. Insomma, si tratta di un protagonista spesso bidimensionale che somiglia più a un personaggio secondario.

Yennefer di Vengerberg

Yen è sicuramente meglio riuscita rispetto a Geralt, principalmente perché, mostrando spesso e senza alcuna reticenza le proprie emozioni, ci appare sicuramente più viva e interessante dello strigo. In particolare, ci sono alcuni capitoli in uno dei primi libri, in cui l'autore per una volta si prende il suo tempo per descrivere il rapporto della maga con la sua allieva Ciri, e devo dire che, almeno per quanto riguarda lo sviluppo dei personaggi, è probabilmente la parte migliore della saga in tal senso (forse l'unica assieme al periodo in cui Ciri vive a Kaer Morhen con gli strighi). Yennefer è intransigente, tirannica, narcisista ed egocentrica, e per quanto la si possa a volte disprezzare, talvolta sa anche mostrare nei momenti più critici di tenere davvero sia a Ciri che a Geralt, il che ce la rende più umana. Si tratta, assieme a Ranuncolo, dell'unico personaggio che non ha risentito della discutibile scelta dell'autore di rinunciare alle fasi di stream of consciousness, proprio perché parla e gesticola molto, al contrario di Geralt e di altri personaggi, come se fosse la prima a volerci far sapere come la pensa o cosa prova. Se Sapkowski avesse adottato degli espedienti simili per altri personaggi della saga, avrebbe sicuramente migliorato di molto la loro caratterizzazione. 

La nota negativa però, è che come tutti i personaggi (esclusa Ciri), l'autore non si è disturbato a esplorarne il passato, le motivazioni e le convinzioni in nessun modo, né con flashback o almeno attraverso conversazioni illuminanti che potessero gettare una luce sulla mente della maga. Ed è qui che entra in gioco la serie TV, che invece, spende due interi episodi per narrare le origini e il passato di Yen e di come fosse una ragazza deforme odiata anche dai genitori. Nel libro, c'è un singolo riferimento a Geralt che è in grado (tramite i suoi sensi di strigo) di intravedere la vera Yen e la sua deformità nascosta dalla magia, e sono due righe nell'intera saga. In pratica, nella serie TV hanno fatto quello che avrebbe dovuto fare Sapkowski nelle pagine del suo libro, il che, secondo me, è una mancanza imperdonabile, non importa quanto l'autore in questione sia famoso o bravo. Il retroterra del personaggio e il suo passato vanno esplorati a tutti i costi, prima o poi, nel corso della narrazione (a prescindere dal tipo di focalizzazione adottato). Da lettore lo esigo, da scrittore, preferisco il "poi", perché mi piace che i miei lettori restino affascinati dal mistero dei personaggi, che si sveleranno poco a poco con tutti i loro drammi interiori e i loro traumi. E poi, amo a mia volta "scartarli" poco a poco, come fossero dei gustosi cioccolatini ripieni. I traumi di Geralt e Yen appunto, sono piuttosto grossi, e di nuovo, come per la discriminazione, l'autore avrebbe potuto capitalizzare su tali sofferenze passate per creare pathos e approfondire i personaggi, ma non l'ha fatto. Anche la manifesta sterilità dei due protagonisti assume connotati piuttosto tragici e spesso struggenti che nella serie TV hanno ampio spazio, mentre nei libri vi si allude più volte ma raramente portano a degli sviluppi importanti. Sapkowski allude troppo, come se porgesse un succulento cosciotto di maiale a un morto di fame e poi se lo mangiasse lui. Mostra qualcosa che c'è, ma poi lo tiene in gran parte per sè, e non ne riesco a capire il motivo. 

Cirilla

Siamo giunti a quella che probabilmente è la vera e unica protagonista della saga dello strigo. Sorvolando gli spoiler, posso dire che, come Yen, Cirilla riceve molto amore dallo scrittore, in quanto abbondano le parti che la vedono protagonista, il suo passato viene esplorato in quanto parte di esso effettivamente è legato alla storia. Inoltre, le peripezie vissute dalla ragazza mostrano con efficacia il modo in cui si forgia il suo carattere, attraverso mille difficoltà e rischi. Un qualcosa che è comune e oserei dire necessario per lo sviluppo di qualunque protagonista. Anche il suo modo di reagire al mondo che la circonda e alle difficoltà sono credibili e creano un personaggio ben delineato, che si completa ulteriormente attraverso il suo complesso rapporto quasi materno con Yen e vagamente paterno con Geralt, pur non avendo i tre legami di parentela. E per combinazione, Ciri è proprio colei che possiede quei dialoghi illuminanti che alla maggior parte degli altri personaggi mancano (penso ad esempio al soggiorno della ragazza nella capanna dell'eremita). Caro Sapkowski, a costo di sembrare polemico, devo proprio chiederlo... sarebbe stato così difficile dare pari dignità a tutti i tuoi personaggi, invece di concentrarti solo su tre di loro? Personalmente, avrei voluto saperne di più sul vecchio Vesemir, su Eskel e Lambert, i compagni strighi di Geralt, e su quest'ultimo. Avrei voluto approfondire la conoscenza di Regis, e così via per tanti altri personaggi che non hanno ricevuto il giusto spazio.

Ranuncolo

Ranuncolo (in inglese "Dandelion", ovvero "Dente di Leone"), è l'ultimo del terzetto che comprende i personaggi che possiedono una caratterizzazione superiore alla media, assieme a Yen e a Ciri. Un vero dandy e donnaiolo, si può amare od odiare, ma è innegabile che Ranuncolo rappresenti il lato leggero della serie di The Witcher. Proprio come Yen e Ciri, il suo modo di essere è ben delineato; risulta spesso pittoresco ed enfatico, cozzando molto con il riserbo e la pacatezza di Geralt e creando un buon contrasto, che giova a entrambi ma che alla fine dei conti non riesce a compensare le mancanze dell'autore nei confronti dello strigo. Anche nel suo caso, assenza di stream of consciousness e nessuna esplorazione del suo passato: prima di iniziare a viaggiare con Geralt per scrivere delle ballate a lui ispirate, di Ranuncolo non sappiamo quasi nulla, e tale resta la situazione fin quasi alla fine, quando veniamo a sapere pochissimo delle sue origini, ma nessun altro dettaglio. Nel suo caso tuttavia, essendo agli antipodi rispetto a Geralt, abbiamo però almeno la consolazione di qualche discussione accesa con lo strigo e perfino qualche sfuriata del menestrello, quando non si trova d'accordo con il cacciatore di mostri. 


Ho preso in esame i quattro personaggi centrali della saga, poiché ve ne sono innumerevoli (Philippa, Milva, Regis, ecc.) che ricevono un trattamento persino peggiore dei protagonisti, essendo personaggi secondari. Ma mentre in alcuni casi (come per Philippa) è comprensibile, lo trovo inaccettabile nel caso di Regis, Milva e Cahir (che comunque viaggiano per un certo tempo con Geralt e hanno un ruolo importante verso la fine). Loro secondo me non ricevono tutto lo spazio che meritano proprio perché Sapkowski sembra o incapace o non interessato a scrivere dal loro punto di vista anche solo una misera scena. E anche nei rari casi in cui lo fa, non esplora il loro passato nemmeno per il minimo indispensabile a dar loro un retroterra decente. Per citare Terry Brooks, se inserisci un personaggio o un avvenimento inutile nella tua storia, la avvii su un binario morto. Se entrano a far parte della compagnia, dovranno uscire dalla nicchia dei personaggi secondari e assumere una maggiore importanza, ma non possono farlo soltanto a metà. 

Caso a sé stante è quello di Dijkstra, il capo delle spie della Redania, il quale possiede spesso dei flussi di coscienza e scene in cui il punto di vista è il suo, il che va contro tendenza rispetto al resto della narrazione e risulta stonare soprattutto perchè è un personaggio secondario, e dimostra come, se solo avesse voluto, l'autore avrebbe potuto riservare lo stesso trattamento anche agli altri. Non a caso Dijkstra è il secondario che ho apprezzato di più. Risulta ovvio che non ci sarà mai spazio a sufficienza per tutti, ma allora ritengo sia importante scegliere con più oculatezza quali e quanti personaggi inserire nella propria storia, e se la loro esistenza è giustificata oppure no. Meglio quattro attori in carne e ossa, oppure un centinaio di comparse composte da manichini? Io voto per la prima... e voi?

3. La storia

Parliamoci chiaro: invece di trattarsi della storia di Geralt e Ciri alle prese con qualcosa di grosso, tutto si riduce al vagabondare dei due, che spesso si cercano senza trovarsi, in un andamento frammentario e spesso dispersivo che non sembra avere una struttura ben definita. Si ha l'impressione che gli eventi della vita dei due personaggi siano soltanto un pretesto e che la parte davvero importante sia il conflitto tra i regni in cui si muove lo strigo e l'invasore, Nilfgaard. E, sempre evitando spoiler, posso dire che nella maggior parte dei casi, sembra di leggere un'inconsequenziale serie di eventi e avventure fine a sé stesse, come quelle di Conan il Barbaro. Il che sarebbe stato perfettamente comprensibile e accettabile nel caso in cui lo strigo fosse rimasto, come il personaggio di Howard, il protagonista di racconti brevi. Ma dal momento in cui Sapkowski ha cominciato a scrivere dei romanzi, ci si sarebbe aspettati una storia molto meglio strutturata e ben delineata, considerando anche il gran numero di libri che l'autore polacco si è preso per scriverla. 

Perciò anche la storia mi ha lasciato estremamente insoddisfatto, specie considerato che, come ho accennato prima, contiene ben pochi elementi sovrannaturali e creature, Geralt utilizza molto di rado pozioni o segni, e in ultimo, il finale dell'ultimo libro mi ha lasciato con l'amaro in bocca. Senza entrare nel regno degli spoiler, posso dire che si tratta di quello che io definisco "un finale balordo", che non solo è aperto (il che può essere anche legittimo se lo si scrive bene), ma lascia in sospeso una marea di questioni irrisolte e di domande. Al contrario, il gioco The Witcher 3: The Wild Hunt soddisfa molto di più, con i suoi possibili finali, dell'opera originale, che sembra incompleta. Che ne sarà del rapporto con Nilfgaard? Si riuscirà a risolvere la questione, o scoppierà di nuovo la guerra? E che ne è della Caccia Selvaggia e di Avallac'h? E di Geralt, Yen e Ciri? E degli altri strighi? Non aiuta il fatto che l'ultimo volume uscito sia in realtà un prequel che si ricollega al primo romanzo, mostrando degli eventi antecedenti e concludendosi con un epilogo che invece, in teoria, dovrebbe situarsi dopo il libro precedente. Sapkowski stesso ha detto che forse potrebbe scrivere ancora di Geralt ma, onestamente, ritengo avrebbe dovuto avere quantomeno il buonsenso di dare un finale che non fosse così inconclusivo e insoddisfacente. Se decidesse di non continuare, sarebbe davvero un modo pessimo di chiudere la saga dello strigo.


In conclusione, se Sapkowski ha iniziato la saga con una focalizzazione zero piuttosto rigorosa che è quantomeno una scelta e come tale può essere o meno condivisibile, col proseguire dei volumi ha cominciato a "contaminarsi" con un po' di stream of consciousness qui e qualche riflessione là (soprattutto col personaggio di Ciri negli ultimi volumi) che hanno reso la narrazione un ibrido: nè carne nè pesce. Per me, risulta essere un autore sopravvalutato che non ha mai compiuto il salto qualitativo necessario per passare dalla scrittura di racconti antologici a dei romanzi veri e propri, che richiedono un tipo di approccio ben più strutturato e certosino.
In sintesi, non sono libri scritti male nel loro complesso, ma neanche romanzi fantasy che mi sentirei di raccomandare... soprattutto quando esistono autori meno celebri ma più talentuosi, come Brandon Sanderson.

E voi che ne pensate dei romanzi di Geralt? Li avete letti? Siete rimasti soddisfatti dagli aspetti che non hanno invece convinto il sottoscritto? 


giovedì 12 novembre 2020

Sulla scrittura (Cap. 11: Scrivere in Italia)

 Capitolo XI: Scrivere in Italia

In linea di massima il mondo dell’editoria, a quanto mi è sembrato di capire, non è esente da tutta una serie di magagne che affliggono altri ambiti, come quello lavorativo, politico e calcistico. Specie in Italia. Anche in questo ambiente non mancano favoritismi, clientelismi e ogni sorta di bieca pratica, che lede non solo ai lettori, ma soprattutto agli autori esordienti che meritano davvero una possibilità e che alcuni editori snobbano in favore di chi ha un maggiore “appeal commerciale” o conosce qualcuno ai piani alti (postilla del 2020: ho avuto ulteriore prova di ciò quando anni dopo ho inviato del materiale a una rivista gratuita che pubblica racconti e non si sono degnati nemmeno di rispondere. Uno dei due racconti che inviai era l'Evocazione, che ho pubblicato in seguito. - NDA).

Succede di sicuro anche all’estero, ma ho notato che in altri paesi (ad esempio in America) è più facile che un autore meritevole riesca a trovare la sua strada (penso a Terry Goodkind – oltre 25 milioni di copie vendute) rispetto all'Italia, dove molti esperti del settore scansano spesso gli inediti con ribrezzo o li considerano persino esseri subumani. In America, il “talent scout” è una figura presa molto più sul serio in qualunque ambito, e gli agenti letterari hanno un'importanza di gran lunga maggiore (a essere onesti non so nemmeno se in Italia esistano, in caso affermativo io non ne ho uno).

La stragrande maggioranza degli editori impiega i propri guadagni per stampare un maggior numero di copie di quei pochi autori che sanno venderanno copie garantite, conducendo il mercato in un circolo vizioso nel quale i soldi non verranno quindi (quasi) mai spesi per le “nuove leve”.

Perché rischiare con un nuovo autore di fantasy (per di più nostrano, dove tale genere è sempre stato di nicchia e che si sta riprendendo solo grazie a film e serie tv) quando si hanno a disposizione autori che vendono milioni di copie assicurate (alcuni persino da defunti), come Terry Brooks, George R.R. Martin, Brandon Sanderson, Robert Jordan o Marion Zimmer Bradley? Un simile rischio non ha senso per gli editori, grandi o piccoli. E questo ragionamento non vale solo per il fantasy, badate bene, esso ne è solo l'esempio più eclatante.

Ci sono stati numerosi dibattiti e insinuazioni riguardo all’inatteso successo di Licia Troisi, al suo debutto molti anni fa (no, non ce l'ho con lei, giuro, è solo un esempio troppo ghiotto), una delle poche autrici italiane di fantasy a fare il botto. Stando alle fonti ufficiali, la Troisi spedì alla Mondadori in un malloppo unico la sua prima trilogia, le “Cronache del mondo emerso” che vedono come protagonista Nihal della Terra del Vento. E contro ogni previsione o buonsenso cosa fece la Mondadori? Divise l’opera in una trilogia, avviò una campagna pubblicitaria senza precedenti e la pubblicò senza batter ciglio.

È importante sottolineare che grandi editori come Sperling & Kupfer, la stessa Mondadori, Nord, Fanucci o Bompiani, per citarne alcuni, non pubblicherebbero mai su due piedi un esordiente spendendo tanti soldi in buone copertine, pubblicità a iosa e un grande numero di copie. O almeno, quasi sicuramente non lo farebbero se fossimo io o voi, cari lettori, a inviare un manoscritto. Eppure – anche in altri casi oltre alla Troisi, sebbene meno clamorosi – in realtà a volte succede. Così la gente ha cominciato a mormorare. E a ragion veduta, a mio avviso, considerata la qualità delle prime due trilogie della Troisi e della pentalogia "La Ragazza Drago".

Segue qui sotto una critica al vetriolo all'autrice (potete anche saltarla, ma se volete davvero farvi un'idea dell'orrore che ho provato e di ciò che non va secondo me nei suoi libri, ma soprattutto delle motivazioni dietro la mia amarezza per il suo immeritato successo, allora leggetela). E se pensate che esageri, andatevi a leggere le prime due trilogie del mondo emerso e "La Ragazza Drago"... ma non fatelo da lettori, bensì indossando le "lenti" dello scrittore. Se avete sufficiente esperienza in fatto di scrittura, vi posso assicurare che ben presto vi verranno i capelli dritti.


Al di là dell’essere uno sconosciuto – essere inedito potrebbe anche non avere importanza se si è dei geni – ci troviamo di fronte a un episodio a dir poco sospetto. Specie se si considera la dubbia qualità stilistica dell'autrice. E non sono affatto l'unico a dirlo. Su internet, se volete, potete trovare critici “non ufficiali”, ovvero persone che non lavorano nel panorama editoriale né sono scrittori di professione – si tratta il più delle volte di semplici maniaci della lettura e scrittura creativa – che smontano metodicamente quasi pagina dopo pagina la prima trilogia della Troisi.

Un esempio atroce segnalato da queste persone? Per l’autrice, l’arco non è un’arma che necessita di molta forza per essere usata. Questa, al di fuori del discorso “è un fantasy”, è una bestialità vera e propria. Mio fratello per un periodo praticò tiro con l’arco e mi fece tendere il suo, un semplice arco curvo, di sicuro molto più piccolo dei famosi Longbow inglesi usati in guerra. Il risultato fu che ricordo di aver faticato parecchio per tenderlo senza incoccare nemmeno la freccia. È vero, all’epoca ero un liceale e di costituzione sono tutt’altro che ben piantato, tuttavia è necessario uno sforzo non indifferente per usare un’arma del genere.

Tali persone hanno sottolineato molti aspetti di questo tipo e simili leggerezze si possono ricondurre sia all’editing di Mondadori che a un’ignoranza di fondo dell’autrice. Ed è grave, considerato che la Troisi non è una contadina (con tutto il rispetto per i braccianti naturalmente), bensì un’astrofisica!

Un’altra domanda che mi è sovvenuta – e credo sia lecito porsela – è la seguente: se è appassionata di astronomia e astrofisica, perché scrivere di fantasy – di cui non sa effettivamente una ceppa – invece che di fantascienza? Una delle prime regole dello scrittore è: scrivi ciò che sai. A quanto pare – al di là di usare nomi di stelle per i suoi personaggi – la Troisi ha deciso di ignorare bellamente tale convenzione non scritta, non avendo neppure il buongusto di svolgere un minimo di ricerche.

Per quanto mi riguarda, la mia esperienza principale con il fantasy deriva da giochi come D&D e i suoi derivati elettronici di ruolo, nonché dalla lettura di opere preesistenti che credo abbiano influenzato un paio di generazioni o più (Tolkien, Brooks, Donaldson, Howard e Bradley per citare i più noti). Senza contare i film e la passione persino per opere classiche come “l’Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto e per i documentari sul Medioevo.

In ogni caso, non sarò un esperto di tale genere, ma quantomeno ho per esso una passione viscerale e lo conosco a sufficienza da potermi barcamenare in un tipo di narrazione simile senza scrivere eccessive atrocità. E quando tutto ciò non basta, svolgo qualche ricerca un po' più approfondita.

Se poi, all’ignoranza in campo di fantasy della Troisi aggiungiamo la scarsa qualità dello stile e la storia priva di originalità – ma soprattutto di personalità, che a mio avviso è molto più grave –, ecco la trilogia che ha venduto centinaia di migliaia di copie.

Non paga di ciò, l’autrice si è lanciata in altri due mirabolanti archi narrativi nello stesso universo e in altre due saghe distinte: La Ragazza Drago (che ho citato poc'anzi) e I Regni di Nashira (il cui mondo è diviso in quattro stati basati sulle stagioni... che fantasia!), di cui ho letto solo la prima, una pentalogia. La Ragazza Drago, appunto, è quello che io oserei definire uno “urban young pink fantasy”, se tale denominazione si può usare davvero, e stilisticamente non si discosta molto dalla prima trilogia del mondo emerso.

La seconda trilogia del Mondo Emerso viceversa è leggermente migliore (seppur sempre terribile), in quanto ha una protagonista con un background più complesso e interessante; inoltre fa la differenza la figura matura e oscura che è quella del suo maestro Sarnek, che nonostante sia un secondario (e appaia solo in dei flashback) l'autrice dipinge in un modo che sa lasciare il segno meglio di tanti altri personaggi, anche primari.
La storia invece, si innesta sulla saga precedente con un pretesto piuttosto banale e scontato, grazie al quale la Troisi ha potuto tirar fuori un’altra saga dal cilindro senza aggiungere molta sostanza al Mondo Emerso in sé.

Dal punto di vista della prosa, continua l’utilizzo di avverbi davvero inutili, forme passive in sei, sette frasi su dieci e il vizio non solo di “dire invece che mostrare”, ma anche una propensione per il dare implicitamente dello stupido al lettore, con precisazioni superflue quanto mai fuori luogo. È come se Licia cercasse di imboccare chi legge, dicendogli al contempo: “Ti spiego tutto io, dato che non sai ragionare da solo.” E qui ribadisco un concetto cui avevo accennato in precedenza: se scrivi anche per gli adulti, dovresti farti qualche domanda, altrimenti, sono libri che andrebbero venduti per una fascia d’età non di minimo, ma di massimo dodici anni. Prima che qualcuno obietti che sono comunque libri per ragazzi e mi definisca un bacchettone, vi dico: provate a leggere Rick Riordan e la sua decalogia di Percy Jackson, di cui possono fruire anche gli adulti, e paragonatela alle cronache della Troisi. Non c'è partita cari miei... non sono nemmeno nello stesso campo da gioco (per citare Jules in Pulp Fiction).

Un altro difetto delle tre saghe che ho preso in esame (le due trilogie del mondo emerso e la Ragazza Drago) è l’eccessiva importanza data alle relazioni: se si volessero piazzare le vicende sentimentali al centro della storia, si scriverebbe un rosa, non un fantasy, da qui la mia espressione “young pink fantasy”, dato che le protagoniste sono sempre adolescenti di sesso femminile e s’innamorano sempre. Per carità, anche nei miei romanzi a volte nascono relazioni, ma le approfondisco solo quel tanto che basta per le necessità dei personaggi e della storia, lasciando il resto all'immaginazione, proprio perché sto scrivendo un fantasy, non un rosa. A meno che la suddetta relazione non abbia conseguenze enormi sulla storia e su altri personaggi. Il che di solito – almeno nel caso della Troisi – non è.

Anche l’utilizzo di miglia, braccia e altri sistemi di misurazione insoliti che i lettori nemmeno conoscono – per non dire l'autrice – rende tutto confusionario, oltre che in alcuni casi clamorosamente sbagliato. Le descrizioni sono spesso generiche, con pochi particolari e molte volte si ripetono in schemi più o meno simili: ad esempio, le foglie delle piante nei boschi sono sempre “carnose”. La Troisi poi, usa la frammentazione non tanto per dare fluidità al testo o sottolineare un concetto, quanto piuttosto senza alcun criterio apparente: tali frasi brevi, tronche e del tutto superflue sembrano quasi scimmiottare Hemingway.
In ultimo, nella seconda trilogia del mondo emerso, si è addirittura scordata di un personaggio secondario, uno spasimante della protagonista, che da quello che ricordo sparisce letteralmente nel nulla e che l'autrice non riprende nel finale (mancanza gravissima che si può perdonare solo a scrittori di grandissimo calibro... perciò non a me o a lei).

Ci sarebbero di sicuro molte altre cose alle quali potrei pensare, ma mi fermo qui, concludendo che l’unica vera nota positiva che mi sento di segnalare è un ricco pathos nei momenti critici, sebbene anche i caratteri dei personaggi a volte sembrino riciclati (Nihal-Dubhe, Sennar-Lonerin, Laio-Learco). L’unico personaggio che veramente mi è rimasto impresso e mi ha colpito molto – oltre al già citato Sarnek – è stato lo gnomo Ido, Cavaliere di Drago maestro di Nihal. Egli – al contrario della maggior parte dei personaggi della Troisi – ha una storia complessa alle spalle, e comparendo anche nella seconda trilogia, è un po’ colui che fa da ponte tra i due archi narrativi, una faccia amica, per così dire. A mio avviso, di certo il personaggio meglio riuscito delle due trilogie, poiché in qualche modo incarna anche in maniera concreta l’eterno stato belligerante del mondo emerso a cui l’autrice spesso allude.


Vogliamo tirare le somme? La Troisi ha venduto più di un milione di copie totali nonostante la scarsa qualità delle opere (postilla del 2020: il numero sarà di certo aumentato, dato che il presente saggio risale al Dicembre 2014 – NDA). Chi ci rimette? Prima di tutto i lettori, specie quelli che magari non hanno letto molto all'interno del genere e credono di avere tra le mani un ottimo libro – non sono pochi credetemi – e quindi non sapranno riconoscere la vera qualità quando la vedranno. Poi, naturalmente, gli altri inediti. Quando qualcuno si è guadagnato un posto “al sole” come la Troisi, anche qualora un esordiente fosse più bravo sarà sempre difficile – se non impossibile – per lui/lei scalzare un autore famoso dalla sua posizione egemonica nel mercato. Specie in un mercato morente come quello italiano, dove un'enorme fetta del fantasy (ma in generale della narrativa in toto) è di importazione ed è già difficile brillare di per sé. E terzo, gli alberi che si abbattono per stampare quella roba. Sono serissimo.

Ora, non so se l'autrice in questione sia migliorata negli anni (io glielo auguro di sicuro) perché dopo la bellezza di tre saghe non mi sono più disturbato a sprecare il mio tempo leggendo ciò che scriveva.
Stando così le cose, è inutile soffermarsi sulla questione cercando di capire perché la Mondadori abbia scelto di pubblicare la Troisi, o per quale motivo altri editori, anche esteri, lo abbiano fatto con altri esordienti di dubbia qualità (Christopher Paolini, per esempio).
Poteva l’autrice conoscere qualcuno all’interno? Plausibile. Poteva l’editore avere la certezza che avrebbe pubblicato qualcosa in grado di attirare il pubblico e tanti saluti alla qualità? Possibile anche questo. Avevano fatto uso di sostanze stupefacenti durante la lettura del manoscritto? Improbabile, ma non da escludere.

A ogni modo, sono più interessato agli effetti che alle cause del fenomeno in questione. D’altra parte, un lato positivo c’è: qualcuno che consideri – a ragion veduta, e questo è importante sottolinearlo – il proprio lavoro migliore di quello di un autore pagato per il suo e che vende milioni di copie, è una vera e propria iniezione di autostima. Decisamente la sostanza più importante per uno scrittore esordiente (specie se dubbioso e insicuro come me).

In tale contesto, mi sono reso conto negli ultimi tempi dell’importanza degli ebook e dei siti online che ne permettono una pubblicazione autonoma e gratuita su circuiti di vendita universali, come gli appstore degli smartphone e amazon kindle. Si tratta di una rivoluzione che potrebbe cambiare questo stato di cose in un mondo in lenta ma inesorabile digitalizzazione. Tale fenomeno potrebbe da un lato costringere gli editori a riconsiderare gli esordienti, dall’altro obbligarli addirittura a prenderli in considerazione per non perdere una nuova, grossa fetta di mercato. Inoltre, evitando tutti gli intermediari, lo scrittore potrebbe raggiungere la notorietà pubblicizzandosi tramite internet con blog, twitter e facebook, per citare alcuni mezzi. Il prezzo degli ebook infine, è sempre più conveniente del corrispettivo cartaceo, com’è ovvio che sia, invogliando i lettori all’acquisto quando si tratta solo di pochi euro per leggere una buona storia.

Finché però il mercato degli ebook sarà di nicchia però, esso potrà limitarsi solo ad essere il surrogato di ciò di cui uno scrittore ambizioso necessita. In tale contesto, il digitale può fungere da trampolino di lancio per farsi conoscere e soprattutto far riconoscere la qualità del proprio lavoro, che a quel punto editori piccoli e grandi potrebbero prendere in considerazione per una diffusione cartacea più estesa e capillare. Da lì al successo sarebbe poi un passo, grazie all’enorme spinta pubblicitaria di cui la Troisi e Paolini sanno senza dubbio qualcosa.

In un primo momento consideravo l’autopubblicazione online l’ultima risorsa. Ora, dopo anni di ricerche e infruttuosi tentativi e avendo maturato la concezione degli editori come aziende vampiresche senza scrupoli, gli ebook mi sembrano invece l’unica opzione possibile (postilla del 2020: considerate sempre che scrissi queste righe nel lontano 2014, svariati anni prima della mia fortunata pubblicazione - NDA).

Scelta che, se coadiuvata da una reale propensione alla scrittura, a un’autopromozione e pubblicità indefessa e a tanti sacrifici, potrebbe forse un giorno portare al tanto agognato successo. Che abbiate scritto una storia breve, un’intera antologia di racconti o un romanzo – di qualunque entità o lunghezza essi siano – il mio consiglio è di non confidare troppo negli editori, ma principalmente in voi stessi e nel vostro duro lavoro. E naturalmente, nelle critiche costruttive di amici o altri scrittori in erba, se ne conoscete.

Partecipare a concorsi e cercare di farsi un nome sgomitando vi potrà sicuramente aiutare (se otterrete risultati e premi) quando invierete il vostro manoscritto a un editore (specie se importante). Mentirei se dicessi che è tutto nelle vostre mani, perché sfondare in ambito editoriale, specie in Italia, spesso richiede anche un'enorme dose di fortuna.


Se per voi scrivere è importante tanto quanto lo è per me (la considero una vocazione), non posso che augurarvi buona fortuna. Sono certo che – durante le vostre numerose traversate in vasca da bagno – ne avrete bisogno.


domenica 25 ottobre 2020

Sulla scrittura (Cap. 10: Narratore e punti di vista)

 Capitolo X: Narratore e punti di vista

Ci sono diversi tipi di narratore: onnisciente, nascosto, esterno alla storia (eterodiegetico), interno alla storia (omodiegetico). In genere il narratore non dovrebbe cambiare la propria natura durante il corso dell’opera, pertanto si parla di “focalizzazioni dogmatiche”. Ne “La Regina dei Dannati” tuttavia, Anne Rice lo fa, passando dalla prima persona quando si concentra sul protagonista, Lestat, alla terza persona quando deve descrivere i fatti dal punto di vista di altri personaggi. Una scelta forse opinabile, che non ho riscontrato in nessun altro romanzo che ho letto fino ad oggi. Ma andiamo con ordine. 

Ogni tipo di narratore ha i suoi pro e i suoi contro a seconda di ciò che si vuole scrivere, anche se di norma, io prediligo il tipo onnisciente. Questo narratore conosce alla perfezione situazioni presenti, passate o future di ciò che sta raccontando, la psicologia, i sentimenti e gli scheletri nell’armadio (se ce ne sono) di tutti i personaggi coinvolti; nonché le motivazioni che li spingono ad agire ed eventuali contraddizioni interiori di cui persino tali personaggi potrebbero essere ignari. Il principale vantaggio di tale narrazione (che si esprime in genere con una terza persona distaccata) è che consente una visione d’insieme di gran lunga superiore, permettendo di esplorare ogni singolo anfratto della narrazione, della storia e dei suoi risvolti, della psicologia e dei temi portanti, senza limitazioni. Lo svantaggio più evidente è il minore coinvolgimento emotivo rispetto a un narratore in prima persona, di cui parleremo tra poco. 

 Il narratore nascosto invece, non conosce nel dettaglio le vicende raccontate, di conseguenza affianca delle supposizioni e opinioni personali alla descrizione degli avvenimenti. Si dice eterodiegetico (ossia esterno alla storia) il narratore non coinvolto nella trama, che si limita a raccontarla. Generalmente si tratta di narratori onniscienti e il racconto avviene in terza persona. L’omodiegetico (interno alla storia) è di solito il protagonista o un personaggio secondario. In genere si tratta di narratori non onniscienti e la narrazione si sviluppa in prima o terza persona. Ci sono poi delle categorie più precise, che comprendono una combinazione di quelle appena citate; si ha la focalizzazione zero quando il narratore è esterno, eterodiegetico e onnisciente: in tal caso lo spettatore è messo in condizione di dominare tutta la narrazione, essendo informato di tutto da un narratore onnisciente che può trovarsi in diversi posti contemporaneamente e analizzare nel dettaglio sentimenti e psicologia di ogni individuo (il tipo che in genere ritrovate nella maggior parte dei fantasy). 

La focalizzazione interna, invece, si ha quando il narratore appunto adotta un punto di vista interno, cioè simile a quello che può avere un personaggio che conosce solo determinate vicende e non tutti i pensieri dei suoi co-protagonisti. Si tratta di quella che in genere utilizzo io; nello specifico, mi servo della focalizzazione interna variabile, perché a ogni cambio scena sposto anche il punto di vista da un personaggio all'altro, a volte persino quello degli antagonisti. La focalizzazione esterna si ha quando il narratore adotta un punto di vista esterno e ne sa meno dei personaggi stessi riguardo una determinata vicenda: un esempio tipico è il romanzo poliziesco e in generale, gli stili in cui deve prevalere la suspense nel pubblico. Se poi il narratore rielabora quanto gli è stato detto da un altro personaggio si hanno:

-narratore di primo grado, cioè colui che comunica direttamente con il lettore e che ha elaborato la storia.

-narratore di secondo grado, ovvero la persona che ha comunicato la vicenda a quello di primo grado.

E così via per il terzo, quarto grado e oltre. Senza soffermarci su ulteriori approfondimenti, scoprirete che a seconda del vostro carattere e di ciò che volete raccontare, la scelta del narratore e del punto di vista saranno quasi sempre del tutto automatiche, guidate addirittura dal vostro subconscio. Prima di scrivere questo capitolo infatti (per il quale mi sono dovuto documentare), non ero nemmeno a conoscenza di tutte queste categorie, ma scrivevo “a naso”! Nel mio caso come dicevo, almeno per i romanzi, ho sempre usato la focalizzazione interna variabile, i cui mezzi principali di espressione sono il discorso indiretto libero, il monologo interiore e lo stream of consciousness; tuttavia, di tanto in tanto nei racconti brevi utilizzo anche la prima persona, e ho scoperto che ha anch'essa delle grandi potenzialità, se usata bene. 

In genere, tale focalizzazione è una scelta obbligata per il mio stile, che consiste nel cercare di caratterizzare al meglio tutti i personaggi (antagonisti compresi) analizzandoli minuziosamente. Gli svantaggi come dicevo sono il minore impatto emotivo e la quasi totale mancanza di grossi colpi di scena, poiché spesso il lettore viene messo in condizione di conoscere anche le mosse e le intenzioni degli antagonisti (o almeno una parte di esse). Nel caso del fantasy in particolare però, ritengo che sia un compromesso accettabile, così come nella fantascienza, poiché al contrario di gialli e thriller basano la loro narrazione sull’azione e sui rapporti tra i protagonisti e sulle loro vicissitudini, più che sulla sorpresa. L’unico modo per ovviare a questa mancanza sarebbe l’uso della prima persona (alla quale sono di solito contrario nel fantasy) o dell’intreccio, che permetterebbe di costruire ad arte dei colpi di scena nonostante il tipo di narratore, omettendo in modo voluto dalla narrazione dei particolari o delle scene, magari raccontandole successivamente. 

Di recente sono riuscito a trovare una sorta di compromesso, scrivendo senza seguire un intreccio stretto ma tenendo per me determinate informazioni per rivelarle solo in seguito, in modo da creare piccoli colpi di scena anche senza avere una trama vera e propria già costruita. Insomma, fare tutto in corso d’opera, quando l’ispirazione lo consente. Se voleste invece dare più enfasi ai sentimenti e al coinvolgimento emotivo, mettendovi allo stesso tempo in condizione di costruire con facilità dei colpi di scena, potreste usare la focalizzazione interna omodiegetica, dove il narratore coincide con uno dei personaggi – di solito il protagonista – e pertanto si narra in prima persona. Sempre in: “Mucchio d’ossa” di King ad esempio, il narratore coincide con lo scrittore protagonista delle vicende, Mike Noonan, permettendo al lettore di immedesimarsi in lui. L’impatto emotivo risulta di gran lunga maggiore e permette di scoprire a poco a poco i risvolti della storia (si tratta di un thriller con elementi paranormali). La terza persona non avrebbe dato lo stesso risultato a opera finita, credetemi. 

“La biblioteca dei morti” di Glenn Cooper invece, rappresenta una via di mezzo. L’autore adotta una focalizzazione esterna: il narratore è appunto esterno ma si limita a raccontare e a svelare soltanto ciò che i protagonisti portano alla luce, mantenendo la suspense ma allo stesso tempo avendo la possibilità di narrare episodi lontani nello spazio e nel tempo, utilizzando una terza persona distaccata. Si tratta di un compromesso molto efficace ma che a mio avviso non è molto congeniale a un genere come il fantasy, per il quale ritengo che le scelte migliori siano la focalizzazione interna o zero (anche se personalmente non apprezzo molto quest'ultima per la mancanza di stream of consciousness e caratterizzazione dei personaggi). 

In conclusione, si tratta sempre di operare una scelta quando avete deciso di cosa trattare e vi trovate di fronte alla pagina bianca. Difficilmente si può sbagliare in questo caso, perciò lascerò a voi il compito di scoprire qual è la tipologia di narratore che più si adatta alle vostre esigenze del momento. In uno dei miei vecchi romanzi fantasy, intitolato: “I cinque regni”, mi sono ritrovato ad avere parecchi protagonisti da gestire con la focalizzazione interna variabile – ben cinque, uno per ciascun regno – di conseguenza mi sono visto costretto a ridurre di molto le fasi di stream of consciousness perché divenute impossibili da gestire. In caso contrario il romanzo sarebbe divenuto un vero e proprio campo di battaglia. È stato per me un libro importante perché credo sia quello che abbia segnato in maniera definitiva il mio passaggio oltre il confine – definito in modo unanime dagli accademici – degli autori in erba: ho perso il “difetto” di passare spesso dal punto di vista di un personaggio all’altro nel corso dello stesso capitolo o addirittura dello stesso paragrafo. 

Nonostante ciò, ero in grado di non confondere il lettore e ne ho la prova (non ho mai confuso la mia ex quando lesse i miei vecchi romanzi), ma mi resi conto che era certamente superfluo. Ci sono altri modi meno invasivi e più raffinati di caratterizzare e far evolvere un individuo e in certi casi, quando si hanno per le mani troppi personaggi, si deve per forza di cose rinunciare allo stream of consciousness in favore di scene o dialoghi in grado di far trasparire un carattere, senza complicare troppo il testo o rallentare in modo eccessivo la storia. E anche in questo caso, come ho detto, le uniche cose che possono impartirvi queste lezioni non sono le prediche (mie o di autori affermati), ma soltanto la pura pratica e il tempo. 

In ultima analisi, se state scrivendo in prima persona, il PoV dovrebbe restare fisso sul protagonista per tutta la durata del racconto (o romanzo). Se viceversa state usando la terza persona e un narratore di tipo onnisciente, allora il mio consiglio è di utilizzare i diversi punti di vista dei protagonisti come un ulteriore strumento di scrittura per caratterizzarli al meglio delle vostre possibilità, passando dall'uno all'altro solo al cambio di scena. A tale scopo, sarebbe una buona idea adottare sempre il PoV di uno dei personaggi più importanti in quella scena, in modo da dargli/le il risalto che merita. Oppure potete scegliere di esaminare quella parte tramite gli occhi di un personaggio secondario o un altro protagonista che però ha un certo ascendente sul personaggio centrale di quella specifica sezione. Come sempre, siete voi i giudici migliori in merito (in caso contrario, i primi lettori servono proprio a dare consigli su questo genere di cose). 

Se scegliete la focalizzazione zero, infine (come nei “Promessi Sposi”), la vostra vita sarà probabilmente più semplice e potrete concentrarvi di più sulla storia e meno sui personaggi, mantenendo sempre un unico punto di vista.


lunedì 19 ottobre 2020

Sulla scrittura (Cap. 9: I personaggi)

Capitolo IX: I personaggi

Anzitutto, ci tengo a fare una distinzione tra quelle che sono le diverse categorie di personaggio. Si tratta in realtà di raggruppamenti spesso cangianti, almeno per me, ma ci arriveremo tra poco. Ci sono prima di tutto i protagonisti, eroi ed eroine, attraverso i quali in genere si mostra la storia (analizzeremo in un secondo momento i punti di vista). Essi possono a loro volta dividersi appunto tra “eroi” e “antieroi”, questi ultimi sono meno idealizzati e spesso hanno una certa dose di cattiveria dentro, quale che ne sia il motivo. Ciò li rende spesso più interessanti dei protagonisti senza macchia, in parte perché sono più complessi e imprevedibili, in parte perché virando verso una gradazione di grigio nella visione di bene e male diventano più realistici; in certa misura anche perché forse incarnano desideri e azioni riprovevoli che nel nostro subconscio vorremmo compiere ma che spesso sono bloccate dalla coscienza o da un codice morale.

Ci sono poi gli antagonisti, la cui natura può variare a seconda del grado di dicotomia tra bene e male che si vuole rappresentare. I “cattivi” sono forse i più interessanti ma allo stesso tempo i più difficili da dipingere, in parte perché svelare tutti i loro piani e i loro pensieri vi costringerebbe inevitabilmente a rinunciare a qualunque colpo di scena, in parte perché immedesimarsi in un malvagio è sempre più difficile, o almeno lo è per me. In “Misery”, per King è stato il contrario: ha trovato più facile – e anche più divertente, e su questo non ho dubbi – immedesimarsi nell’infermiera pazza Annie Wilkes piuttosto che nello scrittore suo prigioniero, Paul Sheldon. Credo sia un fattore soggettivo, che può dipendere anche dal genere in cui vi barcamenate o dalla singola storia, a ogni modo ho sempre riscontrato una certa difficoltà nel cercare di non rendere stereotipati i miei antagonisti.

Trovo che non ci sia niente di peggio che presentare un cattivo che dia la netta impressione di essere soltanto uno dei tanti spauracchi a cui siamo abituati: l’antagonista dovrebbe essere invece complesso, volendo persino disturbato, avere una visione del mondo diametralmente opposta ai “buoni”, ma allo stesso tempo propugnare idee o ideali che il lettore possa in certa misura condividere. Insomma, un cattivo non poi così cattivo, se giudicato da una diversa prospettiva.

Questo mio pensiero si può riassumere perfettamente nella frase del vampiro Lestat di Anne Rice, quando – quasi con il candore di un pargoletto – dichiara: “Il Male è un punto di vista”. Anche nel suo modo di vedere i vampiri, definendoli le creature più simili a Dio, Lestat segue in un certo senso una logica inoppugnabile per Louis; Lestat non è un “cattivo”, è Louis nel primo libro a dipingerlo come tale, in realtà è soltanto un individuo che vede le cose in modo distaccato, privo del rimorso che prova invece il suo allievo. Proprio come un predatore in natura uccide per semplice bisogno e non sente alcun senso di colpa. E per ironia della sorte è questa differenza che spinge Louis a trattare Lestat come un mostro, sebbene non lo sia. Bisogna leggere poi il secondo volume, che Lestat narra in prima persona, per rendersi conto del suo passato e per comprenderlo davvero, in modo da capire come la visione di Louis non fosse proprio imparziale.

Da un punto di vista prettamente psicologico, a mio avviso Lestat è uno degli antagonisti/antieroi meglio riusciti della letteratura moderna. Per non parlare dell'incredibile madre dei vampiri, Akasha, un perfetto esempio di antagonista dai validi ideali, per quanto distorti. Credo che creare degli antagonisti memorabili sia il primo passo verso la grandezza, poiché assieme agli antieroi, ritengo che siano il tipo di personaggio più interessante, anche se la maggior parte dei lettori – o almeno così mi sembra – continuano a preferire i protagonisti eroici e a identificarsi con essi.

Abbiamo poi i personaggi secondari, che spesso intervengono aggiungendo credibilità al contesto, interagendo coi protagonisti, fornendo risvolti nel corso della narrazione e molto altro, ma non vengono approfonditi come i primi. Per quanto possano sembrare “tappezzeria”, non si dovrebbe mai sottovalutare l'importanza dei personaggi secondari e la loro utilità ai fini della storia e dello sviluppo dei protagonisti.

Infine, ci sono quelli che io chiamo “i circostanziali”. Tengo a precisare che questa categoria – del tutto estranea al pensiero accademico della scrittura creativa – è una mia classificazione personale. I circostanziali sono quei personaggi che nascono come individui perfino più superficiali dei secondari, e che all’inizio nella mia mente non sono altro che figure indistinte. La maggior parte delle volte rimangono tali – come un passante in una strada trafficata che attira la mia attenzione per un particolare, come ciò che indossa o come cammina – altre volte, poche a dire il vero, succede qualcosa di inaspettato. L’individuo, del tutto marginale, balza con violenza fuori dal suo cantuccio per reclamare un posto nella storia.

È stato il caso del poliziotto Jake Denver nel mio romanzo fantascientifico (inedito) “Le rovine”, che doveva essere soltanto l’anonimo autista di un blindato della polizia ed è divenuto invece addirittura un personaggio secondario! Tutto è nato da un suo semplice gesto che mi ha colpito: togliersi l’elmetto della sua tuta delle forze speciali perché non sopportava di tenerlo e quando il suo superiore è tornato lo ha ripreso severamente. Questo semplice episodio (che non avevo affatto preventivato) ha innescato una serie di avvenimenti che hanno portato Jake a farsi strada nella storia a gomitate tra gli altri personaggi e a diventare a sua volta un secondario, e le sue azioni hanno avuto un impatto perfino sulla storia! Credo possa succedere anche per un secondario di diventare un co-protagonista, ma mai un protagonista vero e proprio. Mi è accaduto anche – nel corso di più di un libro – che in un successivo arco narrativo, un vecchio protagonista diventasse un co-protagonista o addirittura un secondario o viceversa, a seconda della volubilità della storia e del carattere che il personaggio tira fuori, come nel caso del mio poliziotto. Lui ne ha tirato fuori abbastanza da uscire dall’indistinta foschia dei “circostanziali” per divenire un secondario, ma non abbastanza da farne un co-protagonista.

In quest’ottica, come accennavo, i personaggi sono spesso un materiale cangiante tanto quanto la storia e come tali bisogna lasciarli a briglia sciolta, liberi di agire ed esprimersi: come sempre anche in questo sta il raccontare la verità. Alla stessa maniera, il loro modo di agire, parlare e pensare deve essere coerente con ciò che sappiamo di loro, persino eventuali contraddizioni interiori possono essere viste come “coerenti”, in base a ciò che stiamo raccontando e ai conflitti interni del personaggio in questione. Sempre in “Le rovine”, la mercenaria Viper spesso si esprime come uno scaricatore di porto, così come i suoi colleghi, mentre Karen – la segretaria del protagonista – è agli antipodi rispetto a lei. Non a caso, la trova sgradevole e volgare.

Dovete conoscere il vostro personaggio, non solo nei sentimenti e nei pensieri, ma anche nel suo modo di parlare e rapportarsi con gli altri, per costruire un individuo credibile. Se parlate di un ex galeotto, i moralisti farebbero bene a tacere se gli mettete in bocca una certa dose di turpiloquio e barzellette sconce: è il personaggio, è parte della sua natura, non potete – e non dovete! – mai mentire su questo. Se mai acquisterete una copia di “On Writing”, vi assicuro che ritroverete molti di questi concetti tra le righe di King, di cui condivido quasi in toto il pensiero.
Il realismo, ma in generale l'onestà intellettuale, viene sempre prima del "politically correct". Sempre.

Thomas Hardy considerava i personaggi – anche i meglio riusciti – solo una pallida imitazione dell’individuo più insignificante del mondo reale. Fu uno dei motivi che lo spinsero a dedicarsi alla poesia verso la fine della sua vita. Non posso non trovarmi d’accordo, tuttavia, al posto suo non mi sento di rinunciare al mio obiettivo di creare personaggi sempre più complessi e credibili, perché anche se somiglieranno sempre e soltanto a “mucchi d’ossa”, il mio sarà un eterno tendere verso la perfezione senza mai raggiungerla, come succede per l’essere umano in tutto ciò che fa. E meno somiglieranno a mucchi d’ossa, più potrò dirmi soddisfatto.

Trovo che l’apoteosi del genio nella creazione di un personaggio sia riuscire non solo nella sua caratterizzazione, ma anche nel fornire al lettore dei tratti distintivi che riconducano in maniera inequivocabile a lui: ad esempio una frase ricorrente, una gestualità, un modo di vestire, un’opinione particolarmente bislacca riguardo a qualcosa. Le possibilità, come sempre, sono infinite.

Ad esempio, in “Mucchio d’ossa” di King – il cui titolo è stato ispirato proprio dalla massima di Hardy, se ve lo state chiedendo – c’era una frase che la moglie defunta del protagonista era solita dirgli quando finiva di scrivere un romanzo: “E questa è una cosa buona, no?” Ecco, poco dopo aver letto il libro un conoscente mi disse una frase quasi uguale e mi fece pensare immediatamente a Johanna, tanto da farmi rabbrividire come se si trattasse di una persona che avevo conosciuto davvero. Così come l’espressione di Detta Walker nella saga di King “La Torre Nera” Stinti cazzuti, per riferirsi agli uomini bianchi. Si tratta, in qualche modo, di instaurare un rapporto così complesso con i personaggi da riuscire a sondarne le profondità più recondite e trovare ciò che si nasconde tra le pieghe della loro personalità. Secondo me, quando vi si riesce, si giunge agli antipodi rispetto ai mucchi d’ossa di Hardy. Si comincia ad avere l’impressione di leggere di persone reali. Ed è questo in fondo l’obiettivo, no? La narrativa è piena zeppa di personaggi bidimensionali o addirittura così piatti da risultare unidimensionali, proprio per la difficoltà di renderli credibili.

Se dovessi usare un’immagine, direi che si tratta di un procedimento simile a quello descritto nella Genesi, in cui Dio infonde il soffio vitale nelle sue creazioni. Per me, rendere un personaggio realistico, elevarlo da mucchio d’ossa a qualcosa di più, significa proprio questo. Vuol dire infondere la propria vita in lui – o lei – attraverso i propri sentimenti e pensieri, le proprie credenze, finché non si comincia a scoprire che il personaggio ne possiede di sue e che spesso non coincidono con quelle del suo creatore. È allora che comincia il passo successivo e la creazione diventa autonoma, quasi padrona del suo stesso destino.

Le prossime tematiche che affronteremo sono il punto di vista e il tipo di narratore. 

martedì 13 ottobre 2020

Sulla scrittura (Cap.8: I dialoghi)

 Capitolo VIII: I dialoghi

Premetto di essere sempre stato un tipo introverso, pertanto fin dagli esordi della mia “carriera”, i dialoghi sono sempre stati, assieme alla punteggiatura, il mio punto debole. Che vi piacciano o meno, però, essi sono una parte integrante e oserei dire fondamentale della fiction. Ad esempio, Elmore Leonard era in grado di costruire conversazioni fenomenali, dal ritmo fluidissimo, che danno la netta impressione di ascoltare vero parlato. Chiaramente, non tutti gli autori ne sono in grado (Lovecraft era l'opposto, e ne era consapevole, infatti ritroviamo pochissimi discorsi diretti all'interno del suo corpus letterario).

Scrivere con pochi dialoghi essenziali si può fare (come si può nel cinema, penso al capolavoro: “Il Cacciatore”, con Robert De Niro o al più recente “Revenant”, che è valso l'Oscar a DiCaprio ed è tratto da un romanzo), e anche così è possibile creare grandi storie e grandi personaggi, ma... c'è sempre un “ma”, vero? Il discorso diretto non è soltanto un orpello, oppure un qualcosa da rifuggire. Si tratta di un attrezzo, proprio come lo sono il vocabolario, la punteggiatura e le tecniche di scrittura (flashback, ecc.). Bisogna affinare la propria abilità nell'utilizzarlo come tutti gli altri strumenti che abbiamo a disposizione. Il dialogo infatti, non solo ci permette di fare uso dello “show don't tell”, ma anche di far progredire la storia attraverso le informazioni che ne scaturiscono (penso ai polizieschi quando un detective interroga un testimone).

Inoltre, il discorso diretto dà la possibilità di differenziare il modo di parlare dei personaggi per presentarceli in una veste più realistica e soprattutto caratteristica: se nella nostra storia abbiamo un criminale e una vecchietta, i due con tutta probabilità si esprimeranno in modo molto diverso l'uno dall'altra, no? Persino le balbuzie, oppure altre stranezze che potremmo conferire a uno dei personaggi finiscono per dar loro maggior spessore. Ripeto: siete liberissimi di non apprezzare i dialoghi (in quel caso potete sempre leggere tanti manuali, testi filosofici o di psicologia che ne sono privi), ma è fuori d'ogni dubbio che essi siano una parte fondamentale della narrativa, la voce del libro, se mi consentite la licenza poetica.

La prima cosa da considerare, quando si scrive un dialogo, è a chi state mettendo in bocca quella specifica battuta. Conoscere i vostri personaggi quindi (ci arriveremo nel prossimo capitolo,) è fondamentale. Diciamo che il vostro protagonista è un tipo asociale, affetto dalla Sindrome di Asperger... parlerà spesso senza incrociare lo sguardo, in modo assai distaccato, incapace di trasmettere le proprie emozioni o di cogliere quelle altrui. Inoltre, percepirà ogni interazione sociale come una seccatura.
Vi propongo di seguito l'estratto di un romanzo che ho letto di recente, “Alba nera su Tokyo”, di Barry Eisler:

«Come lo hai saputo?» gli domandai.

Posò lo sguardo sul tavolo e poi nuovamente su di me. «Alcuni colleghi del signor Holtzer, della CIA di Tokyo, si sono messi in contatto con la polizia metropolitana. Non erano tanto turbati dalla morte di Holtzer in sé, quanto piuttosto dal modo in cui era avvenuta. Sembravano convinti che ci fosse il tuo zampino.»

Io non proferii parola.

«Volevano che noi li aiutassimo a scovarti», proseguì. «I miei superiori mi hanno ordinato di fornire loro la massima collaborazione.»

«Perché sono venuti a chiedere aiuto proprio a te?»

«Ho il sospetto che la CIA abbia ricevuto l'incarico di eliminare almeno una parte della corruzione che paralizza l'economia giapponese. Gli Stati Uniti temono che, se la situazione dovesse degenerare, il sistema finanziario giapponese crollerebbe. E questo produrrebbe un effetto a catena, con conseguente recessione globale.»

La preoccupazione dello Zio Sam era comprensibile. Tutti sapevano che i politici giapponesi erano più interessati ad accaparrarsi la loro quota di denaro attraverso la losca gestione delle opere pubbliche e le tangenti della yakuza che non a resuscitare un'economia al collasso. Si sentiva la puzza di marcio da lontano.

Bevvi un altro sorso di Dalmore. «Come ti spieghi questo loro interesse nei miei confronti?»

Tatsu si strinse nelle spalle. «Forse vogliono vendicarsi. Forse rientra in una più ampia offensiva contro la corruzione. In fondo, sai bene anche tu che Holtzer faceva circolare rapporti di intelligence che ti indicavano come l'assassino "per cause naturali", responsabile della morte di un certo numero di confidenti e di politici giapponesi di tendenze riformiste. Forse, per entrambi i motivi.»

Fantastico, nevvero? Per prima cosa, c'è da dire che il romanzo è il secondo volume di una serie, e l'autore riesce, attraverso il dialogo, a riassumere alcuni fatti salienti di ciò che è accaduto: attenzione, non ve lo ha detto lo scrittore, ve lo hanno detto i personaggi (c'è una bella differenza!). Inoltre, persino per chi, come voi, legge solo un estratto, è già chiaro che il protagonista è un killer professionista, e che Tatsu, l'uomo con cui sta parlando, deve far parte come minimo della polizia (in effetti lavora per il Keisatsucho, l'FBI giapponese – NDA).

Cos'altro si può dire di concreto su questo estratto? Simile al poliziesco, presenta dei botta e risposta, che però l'autore spezza di tanto in tanto con delicatezza attraverso le considerazioni del protagonista e le movenze dei personaggi. Nella realtà infatti, nessuno resterebbe immobile come una statua mentre chiacchiera, giusto? Specie in un bar. Ed è esattamente tenendo a mente queste linee guida che si costruiscono i dialoghi.

Con una certa dose di pratica, applicandosi e provando e riprovando, si può giungere a questo livello, o almeno, andarci vicino. Scrivere dialoghi a due risulterà sempre più facile, è chiaro, perciò cosa succede quando gli interlocutori sono tre, quattro o cinque? In quel caso, si richiede all'autore uno sforzo ben maggiore per non confondere il lettore, perciò diventa ancora più importante descrivere gli astanti in modo tale da lasciar trasparire con chiarezza chi dice cosa.

Purtroppo non ci sono scorciatoie, l'unico modo per migliorare è leggere tanto e scrivere tanto, come per tutti gli aspetti della scrittura creativa. Io ho impiegato diciannove anni a raggiungere un livello quasi comparabile ad Eisler per quanto riguarda i dialoghi. Tuttavia, se vi può consolare, da ragazzini non si impara tanto quanto da adulti per un semplice motivo: non abbiamo gli strumenti adeguati. Perciò ritengo di aver avuto bisogno in realtà di sette od otto anni per perfezionare la tecnica, anche se sono convinto che ci sia ancora un certo margine di miglioramento.

Per concludere, a ogni interlocutore che si aggiunge in un dialogo, aumenta la difficoltà, e la capacità di uno scrittore di gestire molteplici personaggi è un ottimo indice del suo talento. Per quanto riguarda le letture, vi consiglio senz'altro Elmore Leonard come riferimento; anche Glenn Cooper è molto bravo, ma posso raccomandare la maggior parte degli autori di thriller e gialli in generale.
Prossima fermata: personaggi!