domenica 25 ottobre 2020

Sulla scrittura (Cap. 10: Narratore e punti di vista)

 Capitolo X: Narratore e punti di vista

Ci sono diversi tipi di narratore: onnisciente, nascosto, esterno alla storia (eterodiegetico), interno alla storia (omodiegetico). In genere il narratore non dovrebbe cambiare la propria natura durante il corso dell’opera, pertanto si parla di “focalizzazioni dogmatiche”. Ne “La Regina dei Dannati” tuttavia, Anne Rice lo fa, passando dalla prima persona quando si concentra sul protagonista, Lestat, alla terza persona quando deve descrivere i fatti dal punto di vista di altri personaggi. Una scelta forse opinabile, che non ho riscontrato in nessun altro romanzo che ho letto fino ad oggi. Ma andiamo con ordine. 

Ogni tipo di narratore ha i suoi pro e i suoi contro a seconda di ciò che si vuole scrivere, anche se di norma, io prediligo il tipo onnisciente. Questo narratore conosce alla perfezione situazioni presenti, passate o future di ciò che sta raccontando, la psicologia, i sentimenti e gli scheletri nell’armadio (se ce ne sono) di tutti i personaggi coinvolti; nonché le motivazioni che li spingono ad agire ed eventuali contraddizioni interiori di cui persino tali personaggi potrebbero essere ignari. Il principale vantaggio di tale narrazione (che si esprime in genere con una terza persona distaccata) è che consente una visione d’insieme di gran lunga superiore, permettendo di esplorare ogni singolo anfratto della narrazione, della storia e dei suoi risvolti, della psicologia e dei temi portanti, senza limitazioni. Lo svantaggio più evidente è il minore coinvolgimento emotivo rispetto a un narratore in prima persona, di cui parleremo tra poco. 

 Il narratore nascosto invece, non conosce nel dettaglio le vicende raccontate, di conseguenza affianca delle supposizioni e opinioni personali alla descrizione degli avvenimenti. Si dice eterodiegetico (ossia esterno alla storia) il narratore non coinvolto nella trama, che si limita a raccontarla. Generalmente si tratta di narratori onniscienti e il racconto avviene in terza persona. L’omodiegetico (interno alla storia) è di solito il protagonista o un personaggio secondario. In genere si tratta di narratori non onniscienti e la narrazione si sviluppa in prima o terza persona. Ci sono poi delle categorie più precise, che comprendono una combinazione di quelle appena citate; si ha la focalizzazione zero quando il narratore è esterno, eterodiegetico e onnisciente: in tal caso lo spettatore è messo in condizione di dominare tutta la narrazione, essendo informato di tutto da un narratore onnisciente che può trovarsi in diversi posti contemporaneamente e analizzare nel dettaglio sentimenti e psicologia di ogni individuo (il tipo che in genere ritrovate nella maggior parte dei fantasy). 

La focalizzazione interna, invece, si ha quando il narratore appunto adotta un punto di vista interno, cioè simile a quello che può avere un personaggio che conosce solo determinate vicende e non tutti i pensieri dei suoi co-protagonisti. Si tratta di quella che in genere utilizzo io; nello specifico, mi servo della focalizzazione interna variabile, perché a ogni cambio scena sposto anche il punto di vista da un personaggio all'altro, a volte persino quello degli antagonisti. La focalizzazione esterna si ha quando il narratore adotta un punto di vista esterno e ne sa meno dei personaggi stessi riguardo una determinata vicenda: un esempio tipico è il romanzo poliziesco e in generale, gli stili in cui deve prevalere la suspense nel pubblico. Se poi il narratore rielabora quanto gli è stato detto da un altro personaggio si hanno:

-narratore di primo grado, cioè colui che comunica direttamente con il lettore e che ha elaborato la storia.

-narratore di secondo grado, ovvero la persona che ha comunicato la vicenda a quello di primo grado.

E così via per il terzo, quarto grado e oltre. Senza soffermarci su ulteriori approfondimenti, scoprirete che a seconda del vostro carattere e di ciò che volete raccontare, la scelta del narratore e del punto di vista saranno quasi sempre del tutto automatiche, guidate addirittura dal vostro subconscio. Prima di scrivere questo capitolo infatti (per il quale mi sono dovuto documentare), non ero nemmeno a conoscenza di tutte queste categorie, ma scrivevo “a naso”! Nel mio caso come dicevo, almeno per i romanzi, ho sempre usato la focalizzazione interna variabile, i cui mezzi principali di espressione sono il discorso indiretto libero, il monologo interiore e lo stream of consciousness; tuttavia, di tanto in tanto nei racconti brevi utilizzo anche la prima persona, e ho scoperto che ha anch'essa delle grandi potenzialità, se usata bene. 

In genere, tale focalizzazione è una scelta obbligata per il mio stile, che consiste nel cercare di caratterizzare al meglio tutti i personaggi (antagonisti compresi) analizzandoli minuziosamente. Gli svantaggi come dicevo sono il minore impatto emotivo e la quasi totale mancanza di grossi colpi di scena, poiché spesso il lettore viene messo in condizione di conoscere anche le mosse e le intenzioni degli antagonisti (o almeno una parte di esse). Nel caso del fantasy in particolare però, ritengo che sia un compromesso accettabile, così come nella fantascienza, poiché al contrario di gialli e thriller basano la loro narrazione sull’azione e sui rapporti tra i protagonisti e sulle loro vicissitudini, più che sulla sorpresa. L’unico modo per ovviare a questa mancanza sarebbe l’uso della prima persona (alla quale sono di solito contrario nel fantasy) o dell’intreccio, che permetterebbe di costruire ad arte dei colpi di scena nonostante il tipo di narratore, omettendo in modo voluto dalla narrazione dei particolari o delle scene, magari raccontandole successivamente. 

Di recente sono riuscito a trovare una sorta di compromesso, scrivendo senza seguire un intreccio stretto ma tenendo per me determinate informazioni per rivelarle solo in seguito, in modo da creare piccoli colpi di scena anche senza avere una trama vera e propria già costruita. Insomma, fare tutto in corso d’opera, quando l’ispirazione lo consente. Se voleste invece dare più enfasi ai sentimenti e al coinvolgimento emotivo, mettendovi allo stesso tempo in condizione di costruire con facilità dei colpi di scena, potreste usare la focalizzazione interna omodiegetica, dove il narratore coincide con uno dei personaggi – di solito il protagonista – e pertanto si narra in prima persona. Sempre in: “Mucchio d’ossa” di King ad esempio, il narratore coincide con lo scrittore protagonista delle vicende, Mike Noonan, permettendo al lettore di immedesimarsi in lui. L’impatto emotivo risulta di gran lunga maggiore e permette di scoprire a poco a poco i risvolti della storia (si tratta di un thriller con elementi paranormali). La terza persona non avrebbe dato lo stesso risultato a opera finita, credetemi. 

“La biblioteca dei morti” di Glenn Cooper invece, rappresenta una via di mezzo. L’autore adotta una focalizzazione esterna: il narratore è appunto esterno ma si limita a raccontare e a svelare soltanto ciò che i protagonisti portano alla luce, mantenendo la suspense ma allo stesso tempo avendo la possibilità di narrare episodi lontani nello spazio e nel tempo, utilizzando una terza persona distaccata. Si tratta di un compromesso molto efficace ma che a mio avviso non è molto congeniale a un genere come il fantasy, per il quale ritengo che le scelte migliori siano la focalizzazione interna o zero (anche se personalmente non apprezzo molto quest'ultima per la mancanza di stream of consciousness e caratterizzazione dei personaggi). 

In conclusione, si tratta sempre di operare una scelta quando avete deciso di cosa trattare e vi trovate di fronte alla pagina bianca. Difficilmente si può sbagliare in questo caso, perciò lascerò a voi il compito di scoprire qual è la tipologia di narratore che più si adatta alle vostre esigenze del momento. In uno dei miei vecchi romanzi fantasy, intitolato: “I cinque regni”, mi sono ritrovato ad avere parecchi protagonisti da gestire con la focalizzazione interna variabile – ben cinque, uno per ciascun regno – di conseguenza mi sono visto costretto a ridurre di molto le fasi di stream of consciousness perché divenute impossibili da gestire. In caso contrario il romanzo sarebbe divenuto un vero e proprio campo di battaglia. È stato per me un libro importante perché credo sia quello che abbia segnato in maniera definitiva il mio passaggio oltre il confine – definito in modo unanime dagli accademici – degli autori in erba: ho perso il “difetto” di passare spesso dal punto di vista di un personaggio all’altro nel corso dello stesso capitolo o addirittura dello stesso paragrafo. 

Nonostante ciò, ero in grado di non confondere il lettore e ne ho la prova (non ho mai confuso la mia ex quando lesse i miei vecchi romanzi), ma mi resi conto che era certamente superfluo. Ci sono altri modi meno invasivi e più raffinati di caratterizzare e far evolvere un individuo e in certi casi, quando si hanno per le mani troppi personaggi, si deve per forza di cose rinunciare allo stream of consciousness in favore di scene o dialoghi in grado di far trasparire un carattere, senza complicare troppo il testo o rallentare in modo eccessivo la storia. E anche in questo caso, come ho detto, le uniche cose che possono impartirvi queste lezioni non sono le prediche (mie o di autori affermati), ma soltanto la pura pratica e il tempo. 

In ultima analisi, se state scrivendo in prima persona, il PoV dovrebbe restare fisso sul protagonista per tutta la durata del racconto (o romanzo). Se viceversa state usando la terza persona e un narratore di tipo onnisciente, allora il mio consiglio è di utilizzare i diversi punti di vista dei protagonisti come un ulteriore strumento di scrittura per caratterizzarli al meglio delle vostre possibilità, passando dall'uno all'altro solo al cambio di scena. A tale scopo, sarebbe una buona idea adottare sempre il PoV di uno dei personaggi più importanti in quella scena, in modo da dargli/le il risalto che merita. Oppure potete scegliere di esaminare quella parte tramite gli occhi di un personaggio secondario o un altro protagonista che però ha un certo ascendente sul personaggio centrale di quella specifica sezione. Come sempre, siete voi i giudici migliori in merito (in caso contrario, i primi lettori servono proprio a dare consigli su questo genere di cose). 

Se scegliete la focalizzazione zero, infine (come nei “Promessi Sposi”), la vostra vita sarà probabilmente più semplice e potrete concentrarvi di più sulla storia e meno sui personaggi, mantenendo sempre un unico punto di vista.


lunedì 19 ottobre 2020

Sulla scrittura (Cap. 9: I personaggi)

Capitolo IX: I personaggi

Anzitutto, ci tengo a fare una distinzione tra quelle che sono le diverse categorie di personaggio. Si tratta in realtà di raggruppamenti spesso cangianti, almeno per me, ma ci arriveremo tra poco. Ci sono prima di tutto i protagonisti, eroi ed eroine, attraverso i quali in genere si mostra la storia (analizzeremo in un secondo momento i punti di vista). Essi possono a loro volta dividersi appunto tra “eroi” e “antieroi”, questi ultimi sono meno idealizzati e spesso hanno una certa dose di cattiveria dentro, quale che ne sia il motivo. Ciò li rende spesso più interessanti dei protagonisti senza macchia, in parte perché sono più complessi e imprevedibili, in parte perché virando verso una gradazione di grigio nella visione di bene e male diventano più realistici; in certa misura anche perché forse incarnano desideri e azioni riprovevoli che nel nostro subconscio vorremmo compiere ma che spesso sono bloccate dalla coscienza o da un codice morale.

Ci sono poi gli antagonisti, la cui natura può variare a seconda del grado di dicotomia tra bene e male che si vuole rappresentare. I “cattivi” sono forse i più interessanti ma allo stesso tempo i più difficili da dipingere, in parte perché svelare tutti i loro piani e i loro pensieri vi costringerebbe inevitabilmente a rinunciare a qualunque colpo di scena, in parte perché immedesimarsi in un malvagio è sempre più difficile, o almeno lo è per me. In “Misery”, per King è stato il contrario: ha trovato più facile – e anche più divertente, e su questo non ho dubbi – immedesimarsi nell’infermiera pazza Annie Wilkes piuttosto che nello scrittore suo prigioniero, Paul Sheldon. Credo sia un fattore soggettivo, che può dipendere anche dal genere in cui vi barcamenate o dalla singola storia, a ogni modo ho sempre riscontrato una certa difficoltà nel cercare di non rendere stereotipati i miei antagonisti.

Trovo che non ci sia niente di peggio che presentare un cattivo che dia la netta impressione di essere soltanto uno dei tanti spauracchi a cui siamo abituati: l’antagonista dovrebbe essere invece complesso, volendo persino disturbato, avere una visione del mondo diametralmente opposta ai “buoni”, ma allo stesso tempo propugnare idee o ideali che il lettore possa in certa misura condividere. Insomma, un cattivo non poi così cattivo, se giudicato da una diversa prospettiva.

Questo mio pensiero si può riassumere perfettamente nella frase del vampiro Lestat di Anne Rice, quando – quasi con il candore di un pargoletto – dichiara: “Il Male è un punto di vista”. Anche nel suo modo di vedere i vampiri, definendoli le creature più simili a Dio, Lestat segue in un certo senso una logica inoppugnabile per Louis; Lestat non è un “cattivo”, è Louis nel primo libro a dipingerlo come tale, in realtà è soltanto un individuo che vede le cose in modo distaccato, privo del rimorso che prova invece il suo allievo. Proprio come un predatore in natura uccide per semplice bisogno e non sente alcun senso di colpa. E per ironia della sorte è questa differenza che spinge Louis a trattare Lestat come un mostro, sebbene non lo sia. Bisogna leggere poi il secondo volume, che Lestat narra in prima persona, per rendersi conto del suo passato e per comprenderlo davvero, in modo da capire come la visione di Louis non fosse proprio imparziale.

Da un punto di vista prettamente psicologico, a mio avviso Lestat è uno degli antagonisti/antieroi meglio riusciti della letteratura moderna. Per non parlare dell'incredibile madre dei vampiri, Akasha, un perfetto esempio di antagonista dai validi ideali, per quanto distorti. Credo che creare degli antagonisti memorabili sia il primo passo verso la grandezza, poiché assieme agli antieroi, ritengo che siano il tipo di personaggio più interessante, anche se la maggior parte dei lettori – o almeno così mi sembra – continuano a preferire i protagonisti eroici e a identificarsi con essi.

Abbiamo poi i personaggi secondari, che spesso intervengono aggiungendo credibilità al contesto, interagendo coi protagonisti, fornendo risvolti nel corso della narrazione e molto altro, ma non vengono approfonditi come i primi. Per quanto possano sembrare “tappezzeria”, non si dovrebbe mai sottovalutare l'importanza dei personaggi secondari e la loro utilità ai fini della storia e dello sviluppo dei protagonisti.

Infine, ci sono quelli che io chiamo “i circostanziali”. Tengo a precisare che questa categoria – del tutto estranea al pensiero accademico della scrittura creativa – è una mia classificazione personale. I circostanziali sono quei personaggi che nascono come individui perfino più superficiali dei secondari, e che all’inizio nella mia mente non sono altro che figure indistinte. La maggior parte delle volte rimangono tali – come un passante in una strada trafficata che attira la mia attenzione per un particolare, come ciò che indossa o come cammina – altre volte, poche a dire il vero, succede qualcosa di inaspettato. L’individuo, del tutto marginale, balza con violenza fuori dal suo cantuccio per reclamare un posto nella storia.

È stato il caso del poliziotto Jake Denver nel mio romanzo fantascientifico (inedito) “Le rovine”, che doveva essere soltanto l’anonimo autista di un blindato della polizia ed è divenuto invece addirittura un personaggio secondario! Tutto è nato da un suo semplice gesto che mi ha colpito: togliersi l’elmetto della sua tuta delle forze speciali perché non sopportava di tenerlo e quando il suo superiore è tornato lo ha ripreso severamente. Questo semplice episodio (che non avevo affatto preventivato) ha innescato una serie di avvenimenti che hanno portato Jake a farsi strada nella storia a gomitate tra gli altri personaggi e a diventare a sua volta un secondario, e le sue azioni hanno avuto un impatto perfino sulla storia! Credo possa succedere anche per un secondario di diventare un co-protagonista, ma mai un protagonista vero e proprio. Mi è accaduto anche – nel corso di più di un libro – che in un successivo arco narrativo, un vecchio protagonista diventasse un co-protagonista o addirittura un secondario o viceversa, a seconda della volubilità della storia e del carattere che il personaggio tira fuori, come nel caso del mio poliziotto. Lui ne ha tirato fuori abbastanza da uscire dall’indistinta foschia dei “circostanziali” per divenire un secondario, ma non abbastanza da farne un co-protagonista.

In quest’ottica, come accennavo, i personaggi sono spesso un materiale cangiante tanto quanto la storia e come tali bisogna lasciarli a briglia sciolta, liberi di agire ed esprimersi: come sempre anche in questo sta il raccontare la verità. Alla stessa maniera, il loro modo di agire, parlare e pensare deve essere coerente con ciò che sappiamo di loro, persino eventuali contraddizioni interiori possono essere viste come “coerenti”, in base a ciò che stiamo raccontando e ai conflitti interni del personaggio in questione. Sempre in “Le rovine”, la mercenaria Viper spesso si esprime come uno scaricatore di porto, così come i suoi colleghi, mentre Karen – la segretaria del protagonista – è agli antipodi rispetto a lei. Non a caso, la trova sgradevole e volgare.

Dovete conoscere il vostro personaggio, non solo nei sentimenti e nei pensieri, ma anche nel suo modo di parlare e rapportarsi con gli altri, per costruire un individuo credibile. Se parlate di un ex galeotto, i moralisti farebbero bene a tacere se gli mettete in bocca una certa dose di turpiloquio e barzellette sconce: è il personaggio, è parte della sua natura, non potete – e non dovete! – mai mentire su questo. Se mai acquisterete una copia di “On Writing”, vi assicuro che ritroverete molti di questi concetti tra le righe di King, di cui condivido quasi in toto il pensiero.
Il realismo, ma in generale l'onestà intellettuale, viene sempre prima del "politically correct". Sempre.

Thomas Hardy considerava i personaggi – anche i meglio riusciti – solo una pallida imitazione dell’individuo più insignificante del mondo reale. Fu uno dei motivi che lo spinsero a dedicarsi alla poesia verso la fine della sua vita. Non posso non trovarmi d’accordo, tuttavia, al posto suo non mi sento di rinunciare al mio obiettivo di creare personaggi sempre più complessi e credibili, perché anche se somiglieranno sempre e soltanto a “mucchi d’ossa”, il mio sarà un eterno tendere verso la perfezione senza mai raggiungerla, come succede per l’essere umano in tutto ciò che fa. E meno somiglieranno a mucchi d’ossa, più potrò dirmi soddisfatto.

Trovo che l’apoteosi del genio nella creazione di un personaggio sia riuscire non solo nella sua caratterizzazione, ma anche nel fornire al lettore dei tratti distintivi che riconducano in maniera inequivocabile a lui: ad esempio una frase ricorrente, una gestualità, un modo di vestire, un’opinione particolarmente bislacca riguardo a qualcosa. Le possibilità, come sempre, sono infinite.

Ad esempio, in “Mucchio d’ossa” di King – il cui titolo è stato ispirato proprio dalla massima di Hardy, se ve lo state chiedendo – c’era una frase che la moglie defunta del protagonista era solita dirgli quando finiva di scrivere un romanzo: “E questa è una cosa buona, no?” Ecco, poco dopo aver letto il libro un conoscente mi disse una frase quasi uguale e mi fece pensare immediatamente a Johanna, tanto da farmi rabbrividire come se si trattasse di una persona che avevo conosciuto davvero. Così come l’espressione di Detta Walker nella saga di King “La Torre Nera” Stinti cazzuti, per riferirsi agli uomini bianchi. Si tratta, in qualche modo, di instaurare un rapporto così complesso con i personaggi da riuscire a sondarne le profondità più recondite e trovare ciò che si nasconde tra le pieghe della loro personalità. Secondo me, quando vi si riesce, si giunge agli antipodi rispetto ai mucchi d’ossa di Hardy. Si comincia ad avere l’impressione di leggere di persone reali. Ed è questo in fondo l’obiettivo, no? La narrativa è piena zeppa di personaggi bidimensionali o addirittura così piatti da risultare unidimensionali, proprio per la difficoltà di renderli credibili.

Se dovessi usare un’immagine, direi che si tratta di un procedimento simile a quello descritto nella Genesi, in cui Dio infonde il soffio vitale nelle sue creazioni. Per me, rendere un personaggio realistico, elevarlo da mucchio d’ossa a qualcosa di più, significa proprio questo. Vuol dire infondere la propria vita in lui – o lei – attraverso i propri sentimenti e pensieri, le proprie credenze, finché non si comincia a scoprire che il personaggio ne possiede di sue e che spesso non coincidono con quelle del suo creatore. È allora che comincia il passo successivo e la creazione diventa autonoma, quasi padrona del suo stesso destino.

Le prossime tematiche che affronteremo sono il punto di vista e il tipo di narratore. 

martedì 13 ottobre 2020

Sulla scrittura (Cap.8: I dialoghi)

 Capitolo VIII: I dialoghi

Premetto di essere sempre stato un tipo introverso, pertanto fin dagli esordi della mia “carriera”, i dialoghi sono sempre stati, assieme alla punteggiatura, il mio punto debole. Che vi piacciano o meno, però, essi sono una parte integrante e oserei dire fondamentale della fiction. Ad esempio, Elmore Leonard era in grado di costruire conversazioni fenomenali, dal ritmo fluidissimo, che danno la netta impressione di ascoltare vero parlato. Chiaramente, non tutti gli autori ne sono in grado (Lovecraft era l'opposto, e ne era consapevole, infatti ritroviamo pochissimi discorsi diretti all'interno del suo corpus letterario).

Scrivere con pochi dialoghi essenziali si può fare (come si può nel cinema, penso al capolavoro: “Il Cacciatore”, con Robert De Niro o al più recente “Revenant”, che è valso l'Oscar a DiCaprio ed è tratto da un romanzo), e anche così è possibile creare grandi storie e grandi personaggi, ma... c'è sempre un “ma”, vero? Il discorso diretto non è soltanto un orpello, oppure un qualcosa da rifuggire. Si tratta di un attrezzo, proprio come lo sono il vocabolario, la punteggiatura e le tecniche di scrittura (flashback, ecc.). Bisogna affinare la propria abilità nell'utilizzarlo come tutti gli altri strumenti che abbiamo a disposizione. Il dialogo infatti, non solo ci permette di fare uso dello “show don't tell”, ma anche di far progredire la storia attraverso le informazioni che ne scaturiscono (penso ai polizieschi quando un detective interroga un testimone).

Inoltre, il discorso diretto dà la possibilità di differenziare il modo di parlare dei personaggi per presentarceli in una veste più realistica e soprattutto caratteristica: se nella nostra storia abbiamo un criminale e una vecchietta, i due con tutta probabilità si esprimeranno in modo molto diverso l'uno dall'altra, no? Persino le balbuzie, oppure altre stranezze che potremmo conferire a uno dei personaggi finiscono per dar loro maggior spessore. Ripeto: siete liberissimi di non apprezzare i dialoghi (in quel caso potete sempre leggere tanti manuali, testi filosofici o di psicologia che ne sono privi), ma è fuori d'ogni dubbio che essi siano una parte fondamentale della narrativa, la voce del libro, se mi consentite la licenza poetica.

La prima cosa da considerare, quando si scrive un dialogo, è a chi state mettendo in bocca quella specifica battuta. Conoscere i vostri personaggi quindi (ci arriveremo nel prossimo capitolo,) è fondamentale. Diciamo che il vostro protagonista è un tipo asociale, affetto dalla Sindrome di Asperger... parlerà spesso senza incrociare lo sguardo, in modo assai distaccato, incapace di trasmettere le proprie emozioni o di cogliere quelle altrui. Inoltre, percepirà ogni interazione sociale come una seccatura.
Vi propongo di seguito l'estratto di un romanzo che ho letto di recente, “Alba nera su Tokyo”, di Barry Eisler:

«Come lo hai saputo?» gli domandai.

Posò lo sguardo sul tavolo e poi nuovamente su di me. «Alcuni colleghi del signor Holtzer, della CIA di Tokyo, si sono messi in contatto con la polizia metropolitana. Non erano tanto turbati dalla morte di Holtzer in sé, quanto piuttosto dal modo in cui era avvenuta. Sembravano convinti che ci fosse il tuo zampino.»

Io non proferii parola.

«Volevano che noi li aiutassimo a scovarti», proseguì. «I miei superiori mi hanno ordinato di fornire loro la massima collaborazione.»

«Perché sono venuti a chiedere aiuto proprio a te?»

«Ho il sospetto che la CIA abbia ricevuto l'incarico di eliminare almeno una parte della corruzione che paralizza l'economia giapponese. Gli Stati Uniti temono che, se la situazione dovesse degenerare, il sistema finanziario giapponese crollerebbe. E questo produrrebbe un effetto a catena, con conseguente recessione globale.»

La preoccupazione dello Zio Sam era comprensibile. Tutti sapevano che i politici giapponesi erano più interessati ad accaparrarsi la loro quota di denaro attraverso la losca gestione delle opere pubbliche e le tangenti della yakuza che non a resuscitare un'economia al collasso. Si sentiva la puzza di marcio da lontano.

Bevvi un altro sorso di Dalmore. «Come ti spieghi questo loro interesse nei miei confronti?»

Tatsu si strinse nelle spalle. «Forse vogliono vendicarsi. Forse rientra in una più ampia offensiva contro la corruzione. In fondo, sai bene anche tu che Holtzer faceva circolare rapporti di intelligence che ti indicavano come l'assassino "per cause naturali", responsabile della morte di un certo numero di confidenti e di politici giapponesi di tendenze riformiste. Forse, per entrambi i motivi.»

Fantastico, nevvero? Per prima cosa, c'è da dire che il romanzo è il secondo volume di una serie, e l'autore riesce, attraverso il dialogo, a riassumere alcuni fatti salienti di ciò che è accaduto: attenzione, non ve lo ha detto lo scrittore, ve lo hanno detto i personaggi (c'è una bella differenza!). Inoltre, persino per chi, come voi, legge solo un estratto, è già chiaro che il protagonista è un killer professionista, e che Tatsu, l'uomo con cui sta parlando, deve far parte come minimo della polizia (in effetti lavora per il Keisatsucho, l'FBI giapponese – NDA).

Cos'altro si può dire di concreto su questo estratto? Simile al poliziesco, presenta dei botta e risposta, che però l'autore spezza di tanto in tanto con delicatezza attraverso le considerazioni del protagonista e le movenze dei personaggi. Nella realtà infatti, nessuno resterebbe immobile come una statua mentre chiacchiera, giusto? Specie in un bar. Ed è esattamente tenendo a mente queste linee guida che si costruiscono i dialoghi.

Con una certa dose di pratica, applicandosi e provando e riprovando, si può giungere a questo livello, o almeno, andarci vicino. Scrivere dialoghi a due risulterà sempre più facile, è chiaro, perciò cosa succede quando gli interlocutori sono tre, quattro o cinque? In quel caso, si richiede all'autore uno sforzo ben maggiore per non confondere il lettore, perciò diventa ancora più importante descrivere gli astanti in modo tale da lasciar trasparire con chiarezza chi dice cosa.

Purtroppo non ci sono scorciatoie, l'unico modo per migliorare è leggere tanto e scrivere tanto, come per tutti gli aspetti della scrittura creativa. Io ho impiegato diciannove anni a raggiungere un livello quasi comparabile ad Eisler per quanto riguarda i dialoghi. Tuttavia, se vi può consolare, da ragazzini non si impara tanto quanto da adulti per un semplice motivo: non abbiamo gli strumenti adeguati. Perciò ritengo di aver avuto bisogno in realtà di sette od otto anni per perfezionare la tecnica, anche se sono convinto che ci sia ancora un certo margine di miglioramento.

Per concludere, a ogni interlocutore che si aggiunge in un dialogo, aumenta la difficoltà, e la capacità di uno scrittore di gestire molteplici personaggi è un ottimo indice del suo talento. Per quanto riguarda le letture, vi consiglio senz'altro Elmore Leonard come riferimento; anche Glenn Cooper è molto bravo, ma posso raccomandare la maggior parte degli autori di thriller e gialli in generale.
Prossima fermata: personaggi!