mercoledì 30 settembre 2020

Sulla scrittura (Cap. 7: La Storia)

 Capitolo VII: La Storia


Ci siamo. Si tratta del cuore pulsante del nostro lavoro in fondo… no? C’è però da fare prima una doverosa premessa. La distinzione tra “trama” e “storia”. La trama è una creatura infida, io la vedo come un ignobile e ingannevole leprecano, che farebbe di tutto pur di recuperare il proprio oro se qualcuno glielo rubasse. La storia invece, è come un’amorevole madre che vi sospinge sempre nella direzione giusta e che spesso vi indica la via quando la smarrite.

Potreste limitarvi a obiettare che sono pazzo. In tal caso siete liberi di crederlo, tuttavia sono convinto – e sono disposto a ripeterlo sotto tortura – che la trama sia una scelta legittima in larga misura soltanto per chi scrive thriller e gialli. Vi chiederete il perché e soprattutto qual è la differenza. In tali particolari generi, per avere un’opera ben scritta, è necessario che l’autore sappia per filo e per segno tutto ciò che accadrà nel dipanarsi della narrazione. Come potrebbe altrimenti improvvisare un racconto su un novello Sherlock Holmes avanzando a tentoni?

In questo caso, vi è un intreccio, l'elemento da me più odiato in assoluto assieme alle forme passive: una serie di avvenimenti già predisposti e pronti per essere scritti. In poche parole è come scrivere una dissertazione scientifica, né più né meno: si sa già chi è l’assassino, dove andare a parare e dove tirar fuori il colpo di scena. Credo sia una questione del tutto soggettiva, ma almeno per me, scrivere così equivale a dare vita a qualcosa che è già defunto. È eccitante quanto eseguire l'autopsia di qualcuno di cui si conoscono già le cause di decesso. Non c’è sorpresa da parte mia, scrivere diventa davvero un lavoro e non c’è neppure la sensazione di star raccontando una storia sconosciuta ed eccitante a se stessi. Perché si sa già ogni cosa.

Naturalmente in alcuni generi letterari l’intreccio è obbligatorio, tuttavia trovo che di rado esso porti a una buona storia in altri tipi di libri. Un’eccezione è “La zona morta” di King, che – a detta dello stesso autore – segue un intreccio preciso ed è un ottimo romanzo, mentre – sempre di King e sempre frutto d’intreccio – Rose Madder è un libro che, sebbene sia ben scritto e ci siano alcune parti suggestive (specie quelle legate al quadro), non brilla di luce propria come gli altri, secondo me. Risulta in un certo senso “spento”.

La trama quindi rappresenta – nella maggioranza dei casi – la metamorfosi maligna della storia: si tratta di costruirla pezzo dopo pezzo come si farebbe con il mostro di Frankenstein, pertanto il più delle volte suonerà forzata, innaturale, nel peggiore dei casi persino scontata. Leggendo un autore che fa uso di intreccio nel fantasy come Brooks, avrete spesso la sensazione che egli predisponga gli avvenimenti con cura come si trattasse della progettazione di un edificio, piuttosto che di un’opera artistica. Certo, restano sempre buone storie e solidi libri, ma almeno per me ristagna sempre una vaga sensazione di artificiosità generale difficile da mandar giù. Come in qualsiasi altro ambito però, le eccezioni esistono (penso alla trilogia dei Mistborn di Sanderson, la cui complessità mi porta a dubitare che lui abbia potuto scriverla senza servirsi dell'intreccio, e che considero un vero capolavoro). Naturalmente, sono esclusi i generi che ho citato prima e che si basano per struttura, sull’intreccio, come i gialli.

E allora che ne è della storia? Per King e per Glenn Cooper – come per la maggior parte dei grandi autori contemporanei e non – nasce da una situazione. Io sono un po’ più tonto, perciò ho bisogno di due “folgorazioni”: di solito la prima è l’abbozzo di storia, che si traduce in qualche personaggio, qualche linea guida e qualche concetto – che in tutto in genere non constano che di poche righe – ma niente di più. L’altra ispirazione di cui necessito, come King, è appunto la situazione. A volte mi viene in mente la situazione e poi l’abbozzo di storia, ma più spesso capita il contrario ed è per questo che di solito anche se ho un’idea non comincio a scrivere finché non ho la situazione (o scena iniziale). Nel caso dei progetti di cui ho parlato in precedenza e dei quali ho preso qualche appunto, ho ricevuto un intero pacco regalo: l’abbozzo di storia e la situazione insieme, poi ragionandoci un po’ sopra, ne ho tratto persino un filo conduttore molto potente. Credo sia stata l’esperienza più vicina ad un’epifania che potrò mai avere in vita mia.

Tornando a noi: una volta che ho l’abbozzo e la situazione, parto da quest’ultima seguendo il primo, ovvero la nebulosa storia che mi si è formata nella testa, che – attenzione – non è mai il libro completo, ma solo una parte iniziale e qualche frammento sparso nel mezzo. Tutta la parte che invece non conosco ancora è metaforicamente una palude nebbiosa e inesplorata che attende che qualcuno vi si avventuri (io) per tracciare una mappa: è l’evolversi degli eventi a fare il resto. Questa in sostanza è la storia: raccontare ciò che si vede man mano che si palesa davanti agli occhi della vostra mente. Naturalmente il world building e i personaggi più importanti della storia richiedono invece un certo lavoro di progettazione al quale nessuno si può sottrarre, specie quando si tratta di fantasy. Anche se non sapete dove porta la strada, dovete conoscere alla perfezione tutto ciò che la circonda. Un 30% progettazione e un 70% improvvisazione, quindi.

In questo contesto mi piace paragonare il romanzo a una di quelle lunghe strade interstatali americane, quelle che si vedono nei film di Hollywood, circondate da miglia e miglia di deserto e non un’anima viva. Proprio come la Highway 50 nel Nevada che King descrive in “Desperation”. Scrivere seguendo la storia è come guidare una macchina a una certa velocità – il ritmo della narrazione, che può variare durante la stesura – su una di queste strade in una notte di novilunio, potendo contare solo sulla luce dei propri fari. Vedete solo alcuni metri davanti alla vostra auto, a volte i fari si spengono e dovete procedere molto lentamente o addirittura fermarvi a ripararli (blocco dello scrittore), altre volte accendete gli abbaglianti e scoprite più di quanto credevate possibile (qui c’è di solito lo zampino benevolo della vostra Musa).

Il segreto sta nell’assecondare ciò che vedete, come cantare una canzone in falsetto per non stonare. Dovete lasciarvi trasportare da quell’onnipresente ritmo che avete nella testa, senza cercare di forzarlo o di manipolarlo: dovete diventare voi stessi i primi lettori. Scoprirete che a volte la storia prenderà pieghe inaspettate, infischiandosene dell’abbozzo – o del finale – che avevate in mente e imboccando una direzione del tutto nuova. Assecondatela. Potrebbe portare alla prematura dipartita di un personaggio, a una dichiarazione d’amore spontanea, a un invertirsi di determinati ruoli o a un improvviso squilibrio di forze.

Qualunque cosa accada, scrivete ciò che avete visto e non metteteci qualcosa di vostro, a meno che non sia in sintonia con il posto dove la storia vi sta conducendo. Questo significa dire la verità, essere onesti nella narrazione, con voi stessi prima di tutto e con il lettore dopo. Non importa se il vostro libro alla fine non conterrà grandi colpi di scena – che trovo siano in larga misura prerogativa degli intrecci – o avrà uno sviluppo piuttosto lineare. Le cose che conteranno sempre più di tutto il resto saranno la storia in sé, i personaggi che le danno vita e la vostra onestà nello scrivere.

Come per temi e simbolismi, anche i colpi di scena sono a mio avviso contingenti: certo la suspense è un’ottima locomotiva, ma se siete abbastanza bravi nel raccontare la vostra storia e nel rendere appassionanti e credibili i vostri personaggi, il lettore riuscirà a non rammaricarsi della sua mancanza. Lo dico in primis come lettore, poiché nonostante in alcuni romanzi abbia trovato diversi risvolti prevedibili, non hanno in alcun modo pregiudicato la qualità del resto, almeno per me. L'importante è cercare di mantenere vivo l'interesse di chi legge, che sia tramite la suspense o grazie alle situazioni che si vengono a creare e i personaggi che le animano.

Al contrario del “Motore Immobile” di Aristotele al quale tutto tende, la storia è un motore in pieno movimento e i suoi mezzi propulsivi sono i personaggi e gli avvenimenti. In questa visione d’insieme, alle volte tali personaggi ottengono – come un corpo celeste che ne orbita uno più grande finché sfugge alla sua gravità – una propria autonomia, sufficiente a distaccarsi dallo strapotere della storia. In tal modo cominciano a volte a influenzare quest’ultima. È allora che essi diventano abbastanza realistici da agire di propria volontà, quasi come se lo scrittore diventasse soltanto un mezzo attraverso il quale il personaggio si esprime e si muove.
A rigor di logica, i prossimi due capitoli tratteranno di dialoghi e personaggi.

sabato 26 settembre 2020

Sulla scrittura (Cap.6: Temi e simbolismi)

 Capitolo VI: Temi e simbolismi

Più che temi – che è un termine che mi ricorda troppo da vicino il periodo scolastico e in generale l’ambito accademico – mi piace parlare di fili conduttori. Si tratta, in parole povere, di ciò di cui tratta il libro. Tratta della storia, obietterete voi. Certo, ma spesso i buoni libri parlano anche di altro, di elementi che a una prima, fugace occhiata potrebbero non risaltare, se siete troppo immersi nel racconto. Si tratta quasi di sussurri. Di echi più o meno indistinti. Per usare un termine kinghiano, (da “La bambina che amava Tom Gordon”) il filo è “il Subudibile”, qualcosa che sosta appena fuori dal vostro campo sensoriale, non riuscite a percepirlo in maniera chiara, ma è abbastanza presente da farvi capire che c’è. Sono d’accordo con King quando afferma che questi fili, questi grandi temi, accompagnano molti dei libri migliori che vi capiterà di leggere. Non fraintendete: anche se un romanzo non affronta questioni rilevanti, può senza dubbio essere comunque un'ottima lettura e una gradevole storia. Tuttavia, scoprirete che spesso i libri che vi appassionano di più saranno quelli che in concreto – al di fuori della storia, dei personaggi e delle situazioni – trattano di qualcosa.

Come per i vostri interessi, questi temi possono e devono essere frutto della vostra esperienza di vita come essere umano, non si dovrebbe mai partire con l’idea di scrivere un libro basandosi su di essi o sui simbolismi. Questi sono soltanto un “effetto collaterale”, qualcosa di casuale e del tutto contingente: possono esserci come non esserci e spesso spunteranno fuori da soli come funghi, senza che ve ne rendiate conto nemmeno voi. In alcuni casi balzeranno all’occhio, in altri dovrete leggere in modo più approfondito tra le righe per trovarli dopo la vostra prima stesura, in altri ancora scoprirete che non ce ne sono e andrà bene lo stesso. L’importante è dare loro risalto nelle stesure successive, se ci sono.

Alcune volte il filo conduttore vi si rivela chiaro e abbacinante come il sole estivo nel momento in cui avete l’ispirazione per una storia. Mi è successo solo un paio di volte e ho messo al sicuro qualche piccolo appunto che riguarda quei due progetti per paura di dimenticarli: avere una storia e un filo conduttore – un tema potente – allo stesso tempo prima di cominciare a scrivere è quasi come vincere alla lotteria. Vi permetterà – anche durante la prima stesura – di sviluppare tale tema portante nel modo più efficace possibile, dandogli tutto il risalto di cui siete in grado, cosa che, inutile dirlo, gioverà molto all’opera finita. Ma in concreto, cosa sono questi grandi temi?

Come dicevo si può trattare di questioni filosofiche, religiose, sociali, di domande esistenziali, dubbi amletici riguardanti le leggi che governano la realtà, di valori, qualunque cosa per voi sia importante nella vostra vita. Nel mio caso, nei cinque volumi di cui consta la prima opera semiseria in cui mi sono cimentato durante il liceo, ho riscontrato parecchi fili conduttori che ho affrontato in maniera del tutto inconsapevole durante lo sviluppo della storia: senso della responsabilità, spirito di abnegazione, la libertà non come vuoto e semplicistico concetto astratto ma come necessità popolare; la vendetta – dapprima vista come unico motivo di sopravvivenza e poi come inutile zavorra di cui liberarsi – e con tutta probabilità potrebbero essercene degli altri.

In “Le rovine” (romanzo fantascientifico parte di una saga che ho interrotto – NDA) invece, mi sono sentito di esprimere tutta la caducità dell’esistenza umana di fronte all’estensione – temporale e spaziale – dell’universo. Il protagonista, Vincent, in qualche modo è divenuto il mio portavoce, sebbene non avessi affatto preventivato qualcosa del genere: una parte di me è scivolata dentro di lui, rendendolo in qualche modo più particolare, speciale, portando nel suo mondo una mia convinzione. E in fondo è a questo che si riduce il discorso: portare il realismo e le tematiche del nostro mondo in quelli che prendono forma nella nostra testa.

Oltre a conferire tale realismo, i fili conduttori svolgono anche un altro, importante ruolo. Quello di spingere il lettore a ragionare, a cercare di smontare le convinzioni di un personaggio oppure ad immedesimarsi in esso per cercare di capirlo o di compatirlo, a seconda di ciò di cui stiamo parlando. Di lasciare degli interrogativi, dei dubbi alla fine della lettura, se possibile. Si tratta di instaurare una specie di legame invisibile tra il lettore e l’autore, usando come ponte i personaggi creati da quest’ultimo. Se riuscite in questo intento e i vostri lettori si sentono coinvolti emotivamente quanto lo siete stati voi nell’atto di scrivere, allora avete fatto centro. Di solito, succede quando raccontate la verità. Dovete essere onesti, non cercate di affossare sul nascere una tematica scomoda quando la vedete filtrare tra le righe, ma assecondate la storia e dite la verità fino in fondo su come la pensate. Una parte dei lettori di certo non condividerà l’idea del protagonista, tuttavia potrà almeno spingerli a riflettere sull’argomento, il che è più che sufficiente, a mio avviso.

I fili conduttori fanno parte di quella serie di elementi che, come dicevo in precedenza, contribuiscono a rendere un’opera unica e darle il vostro marchio, renderla personale e per questo più interessante. Trovo però che sia una cosa che debba uscire fuori in maniera naturale e mai forzata. Come ho già detto, costringersi a scrivere seguendo delle tematiche già impostate renderebbe tutto artificioso e privo di pathos: l’esatto contrario di ciò che desiderate ottenere. Il segreto sta nel non pensarci e il vostro subconscio farà il resto. Siete degli animalisti convinti? Dei vegetariani? Nel vostro romanzo potreste voler sfruttare ciò che pensate a riguardo e cercare di farlo trasparire dal modo in cui scrivete, dalle situazioni o dagli atteggiamenti di diversi personaggi, magari in conflitto tra loro riguardo tali idee. Ma sempre se se ne presenterà l’occasione in corso d’opera, sia chiaro. Spesso trovo sia anche un modo per conoscere meglio noi stessi, per portare a galla le proprie contraddizioni e scoprire qualcosa di nuovo su di sé, perché anche se gli antichi erano soliti dire “conosci te stesso”, nessuno di noi potrà mai dire di esserci riuscito fino in fondo, nemmeno dopo una vita.

Per quanto riguarda i simbolismi – che come il termine “temi” mi ricorda fin troppo l’ambito della letteratura studiata a scuola e che non ho mai amato molto – il discorso è assai più breve. Rispetto ai fili conduttori, si tratta più che altro di significati insiti in un’immagine, un simbolo (da qui, simbolismo). Per esempio, King ha scoperto che in “Carrie”, il sangue era un elemento importante: era associato all’inizio della maturità sessuale femminile ma allo stesso tempo alla manifestazione delle capacità psichiche della ragazza. Inoltre, il sangue faceva la sua comparsa nei tre punti cruciali del romanzo: la scena iniziale appunto, con le mestruazioni della protagonista, lo scherzo al ballo (il culmine) e la conclusione.

King ha scoperto solo dopo tutto questo, non era partito col presupposto di costruire la sua storia sul simbolismo del sangue, né sul tema dell’emarginazione giovanile nelle scuole, o sul filo conduttore del fanatismo religioso. Eppure, sono tutte tessere del mosaico che l’autore ha inserito in modo del tutto inconsapevole nel suo lavoro e – quando si è reso conto di averlo fatto – ha provveduto in modo tale da arricchire il libro dando risalto a ciò. Lo stesso dovreste fare voi, sempre se scoprite – in sede di rilettura – che tali temi e simbolismi ci sono e hanno una certa importanza (o una risonanza come la definisce King) non solo per voi, ma anche per la storia che state raccontando.
Ora è giunto il momento di occuparsi della parte fondamentale del nostro lavoro: la Storia.

martedì 22 settembre 2020

Sulla scrittura (Cap. 5: La lunghezza)

 Capitolo V: La lunghezza

Per tornare a citare i cosiddetti “balordi” su internet (vedi capitolo 2), mi è capitato di leggere il post del blog di una di queste persone e la mia reazione è stata di pura irritazione. Discriminare un’opera per la sua lunghezza – che la si consideri troppo breve o troppo lunga – è una cosa davvero idiota. Soprattutto, trovo davvero deprecabile il tono saccente da accademico usato da questi individui, i quali sostengono che l’autore debba per forza di cose poter controllare la durata del libro. Inutile dire che la ritengo una delle più grosse puttanate che abbia mai sentito in vita mia. Certo, se si è un po’ ridondanti si può sempre optare per tagliare in fase di revisione, ma non si decide mai a tavolino a priori. Io sono solito prefiggermi un obiettivo medio e variabile di centomila parole, spesso le supero, in due o tre casi invece non le ho raggiunte, ma va bene lo stesso.

Dalla mia esperienza posso dire che qualcuno che lesse anni fa alcuni miei racconti sosteneva che fossero “troppo lunghi”. Alcuni di essi invece non raggiungono le dieci o le cinque cartelle e ritengo che dipenda in larga misura da ciò di cui trattano e dalla complessità della situazione iniziale, mai da un mio ragionamento cosciente. Uno in particolare constava di 25 cartelle, quando la categoria di racconto lungo – quelli che alle volte vengono spacciati per romanzi a 10 euro ma non lo sono – va dalle 11 alle 50 cartelle.

Ora, non per essere pedante ma un racconto di King, “La Nebbia”, è lungo più di cento pagine, eppure è fenomenale, tanto che ne hanno tratto persino un film. I favolosi: “Le Montagne della Follia” e “Il caso di Charles Dexter Ward” di Lovecraft sono altrettanto lunghi, si potrebbero considerare quasi romanzi brevi, ma trovo che si salvino in calcio d’angolo. Anche stando così le cose, nulla toglie al loro valore: a mio avviso sono dei racconti più che ottimi. Una persona sul blog del suddetto balordo commentò il suo articolo con comprensibile sdegno, affermando: “Finisco di scrivere quando finisco.” Non posso che trovarmi d’accordo con lei. Non siamo noi a decidere la lunghezza di un romanzo, mai, in nessun caso, eccezion fatta forse per i maniaci dell’intreccio, di cui parleremo più tardi. La storia va avanti fin quando non l’avete raccontata tutta e dipende soltanto dal dipanarsi degli eventi che avviene nella vostra testa e dal ritmo scandito dalla stessa narrazione. Può trattarsi di un romanzetto di centocinquanta pagine, come può benissimo trasformarsi in corso d’opera in un tremendo gigante di cinquecento o più: quello che conta è sempre raccontare ciò che avete visto ed essere onesti nel farlo.

Il romanzo più breve che ho scritto finora è composto da circa 260 cartelle, circa settantamila parole; il più lungo, è di oltre 420 cartelle, grossomodo centotrentamila parole (si tratta di vecchi manoscritti risalenti ad anni fa, il mio ultimo romanzo [scrivo questa nota nel Luglio 2020] è di quasi centosessantamila parole – NDA). Secondo il nostro amico balordo, nessuno avrebbe il coraggio di leggere un’opera scritta da un esordiente che sia più lunga di 300 cartelle, figurarsi se supera le 400! Un’altra affermazione boriosa quanto demenziale, frutto di un cervello scarsamente popolato di neuroni, oltre che privo di umiltà. Ho letto ebook molto brevi di saghe di esordienti che constavano di cinque od otto volumi. Ciascuno di essi non poteva superare le venti o trentamila parole singolarmente, ma come lunghezza complessiva arriverebbero di sicuro a 400 cartelle o forse più, e li ho letti con piacere, in alcuni casi apprezzando degli esordienti più di certi autori affermati.

La volontà di proseguire la lettura di un libro – che sia di un esordiente o meno – dipende da diversi fattori: un romanzo può essere un mattone colossale come “It” ma essere al contempo scritto molto bene, perciò in primo luogo dipende dalla predisposizione del lettore, e in secondo luogo dall’abilità dell’autore. Nel mio caso, in genere sono capace di mandare giù anche macigni, ho letto due volte “Il Signore degli Anelli” di Tolkien e “La Torre Nera” (che consta di otto libri di cui sei mattoni) di King. Ho letto due volte anche il Ciclo di Cthulhu di Lovecraft nonostante sia prolisso e a volte ripetitivo nella sua reiterazione degli stessi concetti (l’antichità delle opere architettoniche, il senso di mistero, eccetera).

Insomma, mi sono arreso trovando il mio limite soltanto di fronte ai romanzi di Asimov, che mi hanno dato l’impressione di star leggendo pagine e pagine simili alle pallosissime introduzioni ai film di “Star Wars”. Ogni lettore dunque ha una sua soglia di sopportazione di base: per esempio c’è chi trova troppo pesanti i fantasy di Terry Brooks – e in realtà in certa misura lo sono a causa delle descrizioni di cui ho parlato nello scorso capitolo – eppure a me non dispiacciono.

Oltre a questo, altri fattori che determinano se qualcuno si prenderà la briga di leggere fino in fondo la vostra opera, sono naturalmente l’interesse che saprete destare nel pubblico attraverso la storia e i personaggi, il ritmo della narrazione, lo stile, l’incipit – fondamentale per agganciare il lettore – e tanti altri elementi. Per esempio, l’esordiente straniero T.M. Nielsen ha scritto la “saga delle dimensioni” a cui mi riferivo poco prima: sono nove e-book fantasy tutti piuttosto corti (classificabili come romanzi brevi) inoltre il suo stile non è lontano da quello della Troisi; figure retoriche assenti, descrizioni ridotte all'osso, caratterizzazione dei personaggi – esclusi i principali – vaga e indistinta.

Eppure – al contrario dell'autrice nostrana – i protagonisti, la storia, il world building e il ritmo incalzante sono riusciti a supplire a tanti di questi grossi difetti appassionandomi lo stesso, nonostante la povertà della sua prosa. Si può quindi dire che se un romanzo è scritto bene e non è greve nel suo svilupparsi, la storia giusta può far miracoli rendendolo godibile e appassionante a prescindere da chi l’abbia scritto o da quanto sia lungo. Sono quei libri che, se non avessero avuto determinati difetti, avrebbero potuto essere potenziali best seller.
Nel prossimo capitolo tratteremo di temi e simbolismi.

mercoledì 16 settembre 2020

Sulla scrittura (Cap. 4: Lo stile)

 Capitolo IV: Lo stile

Okay, togliamoci subito questo dente. Non ha importanza se durante le ore di italiano pensavate ai fatti vostri, dormivate o vi scaccolavate, perché la grammatica – quella vera – non si impara sui banchi di scuola, con l’analisi grammaticale o quella logica. Quelle, cari miei, sono nozioni senza dubbio utili, da stratificare finché si è molto giovani, ma la vera arte dello scrivere s’impara altrove. Come il basket migliore si impara sui campetti di strada e non sul parquet – e posso dirlo con cognizione di causa – così lo scrivere non s’impara nei seminari di scrittura creativa o a scuola. Si impara scrivendo. Compilando pagine su pagine, una maledetta parola dopo l’altra. Lo dimostra il fatto che nonostante fossi fresco di liceo, in quel periodo la mia prosa era ben più prolissa e legnosa rispetto ad ora. Da allora posso dire di aver compiuto passi da gigante.

Ve ne chiederete il perché e sarò felice di fornirvi una risposta. Non c’è un grande mistero dietro, semplicemente quando si scrive – che sia un bigliettino d’amore, la lista della spesa o un tema in classe – lo si fa sempre di getto, non si sta a pensare a dove schiaffare un predicato o a quanti aggettivi si possano accumulare su uno stesso nome. Si scrive e basta. Al contrario di ciò che pensano molte pompose teste di c****, si tratta di un atto puramente creativo come il comporre una canzone improvvisando, non è una scienza esatta e almeno in prima stesura non ci si può preoccupare troppo della forma togliendo attenzione ai contenuti.

Si migliorerà dunque con la pratica e con essa soltanto, non leggendo voluminosi tomi sulla scrittura creativa. Un libro simile – specie se scritto da un bravo autore – può essere utile per confrontarsi con qualcun altro, ma non può compiere miracoli, anzi. Fossilizzandosi troppo su concetti teorici si rischia di peggiorare le cose, facendo proprie le idee e le nozioni di altri invece di imparare sperimentando di persona con la pratica.

Le uniche cose di cui preoccuparsi al di fuori di eventuali refusi o errori ortografici – con i quali non dovreste avere problemi se state leggendo queste righe, o almeno spero – sono la punteggiatura e la costruzione logica (sensata) della frase, il resto vien da sé e ci sarà sempre tempo per correre ai ripari durante le numerose revisioni. A volte anche dopo la seconda o terza bozza mi capita ancora di imbattermi in costruzioni di frasi infelici oppure precisazioni pleonastiche, ma è giusto così: la perfezione non esiste e non c’è neppure modo di evitare tanti errori, perché durante la prima stesura state raccontando la vostra storia e la state raccontando a voi stessi. È normale sbagliare, forse persino giusto. Quindi se non avete grossi problemi con la grammatica, il più è fatto: avere già un testo scritto in modo corretto e abbastanza scorrevole è un ottimo inizio.

Dopodiché, il vocabolario: anche in questo caso sono dell’opinione che come dicevano gli antichi, la virtù sia nel mezzo. Non cercate di arricchire il testo con paroloni altisonanti solo per impressionare, né viceversa siate troppo semplici, tanto da sembrare bambini delle medie o peggio. Scoprirete ad ogni modo che leggendo molto il vostro vocabolario si amplierà senza nemmeno accorgervene e vi ritroverete ad usare con sempre maggior frequenza termini più ricercati – di cui ignoravate l’esistenza fino a pochi minuti prima di imbattervi in essi – ma non per questo per forza aulici. Ne gioverà anche il corpo del testo, in quanto conoscere molti sinonimi vi aiuterà ad evitare inutili e tediose ripetizioni (conosco lettori per i quali esse sono il peggiore dei crimini da parte degli autori, e come dar loro torto?). Ad esempio, quanti di voi conoscono la parola ara? L’ho scoperta anni fa perché necessitavo a tutti i costi di un sinonimo di "altare" per evitare un’antiestetica reiterazione (avete notato che non ho “riutilizzato ripetizione”?), nella riga successiva. In ogni caso, se non state cercando di diventare best seller, è inutile ammazzarvi di fatica per migliorare il vostro stile e il vocabolario a tutti i costi. Accontentatevi di ciò che avete, fintanto che sia pulito, scorrevole e gradevole. E naturalmente, che non sembri scritto da un ragazzino.

Ad esempio, (l'ormai tartassata da me e da altri) Licia Troisi ha uno stile molto semplice e pulito: è gradevole e scorrevole, ma la sua semplicità è davvero spinta all’estremo. Le figure retoriche sono quasi inesistenti, i pensieri dei protagonisti troppo semplificati, a volte sembra quasi di leggere un libro della serie: ”Geronimo Stilton”. Non c’è quella complessità che ci si aspetterebbe dalla mente di una persona reale, insomma. Con questo non intendo dire che tutti i vostri personaggi debbano rivelarsi dei novelli Nietzsche o Cartesio, né che dobbiate infarcire le considerazioni di eroi e antagonisti di puro filosofeggiare fine a se stesso, che considero il corrispettivo intellettuale dell’edonismo (ovvero far sì che senso critico e retorica si pratichino la fellatio a vicenda). Quello che voglio dire, è che trovo necessario fornire al lettore non solo un’introspezione emotiva, ma anche il senso critico dei personaggi. Un individuo privo di senso critico non è molto diverso da un automa, non trovate? Per concludere, un conto è partire con il target prestabilito dei bambini, un conto è che vogliate scrivere per una fascia di lettori più ampia.

Come detto però – per tornare al vocabolario – anche cadere nell’eccesso opposto è altrettanto sbagliato: ad esempio, Lovecraft aveva sì una capacità descrittiva fuori dal comune, ma i suoi eccessivi tecnicismi rendono spesso la lettura pesante e a volte perfino snervante. Se ogni due o tre pagine – o anche meno – il lettore dovesse trovarsi costretto a consultare il vocabolario (e credetemi, per trovare “paleogenico” sono dovuto ricorrere alla Treccani!) sarebbe di certo un punto perso per voi. Per quanto riguarda invece la punteggiatura, a volte con essa ho problemi e solo innumerevoli riletture del testo mi permettono di sistemare eventuali periodi troppo brevi o troppo lunghi; il mio consiglio è: rileggete, rileggete rileggete. Farlo ad alta voce potrebbe essere una buona idea.

Quanto alla costruzione della frase e la durata dei paragrafi, sono del tutto soggettivi e almeno qui, non vi posso aiutare. Si tratta di trascrivere il ritmo della narrazione che ognuno ha nella testa, il modo in cui ciascuno sente le parole nella propria mente, come sente pronunciare i dialoghi diretti dei personaggi, con che cadenza, a che velocità e con quante pause.

Nel mio caso, vedo spesso i personaggi muoversi o assumere diverse espressioni nel corso di un dialogo, detesto infatti gli autori che al contrario ricorrono ai botta e risposta troppo lunghi o li usano troppo spesso perché a volte – di solito quando gli interlocutori sono più di due – mi capita di perdere anche il filo di chi dice cosa. C’è bisogno di fluidità nel dialogo e se gli astanti sono tre o anche più, sta allo scrittore rendere la conversazione quanto più chiara possibile. Naturalmente risulta invece molto più facile nei botta e risposta tipici degli interrogatori delle forze dell’ordine nei thriller, specie se l’autore è bravo – come Glenn Cooper – nel rendere la cadenza: in quei casi mi sembra quasi di star guardando una puntata di una serie poliziesca. Perciò scoprirete che il più delle volte sarà il filo stesso della narrazione a dettare il passo e vi sentirete un po’ come degli amanuensi, che si limitano a ricopiare ciò che hanno nella testa.

Il discorso del ritmo vale per tutto il corpo del testo, ma le singole frasi secondo me meritano un piccolo approfondimento. Per King, l’unità di misura è senz’altro il paragrafo. Per me è la frase, il paragrafo viene sempre dopo, quando ho “assemblato” varie frasi in un unico contesto. Mi riesce sempre più facile barcamenarmi nella giungla della grammatica e della narrazione se organizzo i pensieri una frase per volta e in certi casi anche così, durante le correzioni successive, a volte scopro di averne scritte di poco chiare o troppo lunghe, che magari nella foga del momento mi erano sembrate cristalline.

In tali situazioni ricorro senza alcuna remora a quel tanto che basta di frammentazione – ci arriveremo tra poco – per restituire fluidità al testo. Potreste scoprire che per voi il metro di misura è un altro ancora, tuttavia la frase ha in sé – almeno secondo me – un’intrinseca importanza, perché un paragrafo altro non è che una serie di frasi, così come una frase è un insieme di parole.

Per funzionare, la frase deve essere di senso compiuto e fornire informazioni, che possono essere una descrizione, un concetto, un pensiero o un’azione. L’unico modo per capire quando usare i due punti, il punto e virgola, quando usare la tecnica della frammentazione – ho scoperto che è ottima per spezzare periodi troppo contorti e restituire una certa malleabilità a punti troppo densi – o quando ci si può permettere una subordinata, è la pratica continua. Quasi sempre vi stupirete nel constatare che le frasi semplici sono quelle che funzionano meglio. Già, proprio come il vecchio Hemingway. Molto tempo fa – ai tempi dei primi “romanzi”– arrivavo addirittura a scrivere frasi di una decina di righe con anche due o tre subordinate. Ora la considero pura follia, se non addirittura un’idea frutto di una grave demenza congenita. Al di fuori di questo saggio – quando tratto la narrativa vera e propria e non necessito di approfondire spesso dei concetti astratti – non scrivo mai più di una subordinata in una sola frase, per quanto i primi tempi la tentazione mi venisse ancora.

Inoltre, ho scoperto che la lunghezza media migliore che si possa desiderare è di circa tre righe. È come il peso forma per chi pratica body building: una frase di massimo tre righe non è così breve da non poter trasmettere concetti un minimo elaborati, ma allo stesso tempo non è così lunga da poter contenere errori abissali e irreparabili (a meno che naturalmente voi non siate un vero disastro, in tal caso, non posso proprio aiutarvi). Certo, a volte possono venir fuori frasi un poco più lunghe, diciamo quattro o cinque righe, ma mai di più, se si procede con metodo.

La frammentazione – come ho accennato poc’anzi – è uno strumento utile non solo per rendere più fluida la narrazione ma anche per dare risalto a qualche punto in particolare. Ricordate inoltre che finché è di senso compiuto, una frase può constare anche di una parola o due, se è concettualmente legata a quanto avete appena detto in quella precedente. Un esempio veloce? “Scosse la testa. Stava andando tutto alla malora. Alla malora!” D’accordo è penoso, ma qui ci interessa il concetto. In questo caso la frammentazione non ci ha solo reso agevole il testo, ma ci ha anche fatto soffermare sulle considerazioni del personaggio su come gli stanno andando le cose, evidenziando con l’ultima frase – in una ripetizione voluta – “alla malora”.

Si tratta di una tecnica efficace ma anche di un’arma a doppio taglio: abusarne può portare ad uno stile troppo sincopato che alla lunga farà diventare il lettore nevrotico (o almeno, a me succede di diventarlo). Sarebbe sempre meglio usarla con moderazione, per evitare di fare la fine di autori come Lissa Price, i cui ebook sono scritti tutti, per tutta la loro estensione, in questo stile. Sono disposto a credere che forse questo sia il ritmo che sente lei nella testa quando scrive, ma posso assicurarvi che la maggior parte degli altri scrittori – me compreso – non la imita.

Ora vorrei soffermarmi un momento su un paio di argomenti sui quali mi trovo d’accordo con King in quanto afferma nel suo “On Writing”: la forma passiva e gli avverbi. Mi capita fin troppo spesso di trovare delle forme passive e quando accade, nel leggerle mi si rivoltano le budella. Potreste pensare che mi sia successo solo con degli esordienti, ma in realtà, di recente rileggendo qualche vecchio libro di Terry Brooks ne ho trovate sparse anche lì, segno che siamo umani dopotutto e forse a volte capita di usarle senza che ce ne rendiamo neppure conto. Persino King stesso, in lavori di dieci, quindici anni prima rispetto a “On Writing” – che è stato pubblicato nel 2000 – abusava di avverbi e forme passive in grandi romanzi come “Shining”, “Carrie” e “Tommyknockers”. Penso che col tempo si sia reso conto da solo di questo, non certo grazie a dei testi sulla scrittura creativa! Un’altra a cadere nella trappola è Anne Rice, perché forme passive e avverbi sono tra i suoi pochi e più gravi difetti, a mio avviso: le sue Cronache dei Vampiri ne sono piene. E che dire di George R.R. Martin nelle sue Cronache del Ghiaccio e del Fuoco? Con gli avverbi è un peccatore comune, ma una frase su due (o al massimo su tre) è una forma passiva. Sono riuscito a sopportarlo solo perché in compenso come scrittore ha altri pregi.

A volte scopro con orrore forme passive anche nei miei scritti e faccio di tutto, perfino stravolgere o riscrivere per intero la frase, pur di liberarmene. Mi dà un senso di temporanea infelicità quando non riesco a esprimere lo stesso concetto ricostruendo la frase in modo da escludere avverbi o forme passive, ma per fortuna alla fine ci si riesce quasi sempre. Se dovessi trovare un’analogia per descrivere la sensazione, direi che mi fa sentire un po’ come quando non riesco ad allineare tutte le tessere di uno stesso colore su una faccia del cubo di Rubik. Pura frustrazione.

In ogni caso, la frase passiva non solo risulta sempre più debole rispetto a quella attiva, ma ha anche un suono sgradevole, come le dissonanze in ambito musicale. La stonatura si avverte subito ed è come sentire delle unghie graffiare su una lavagna. Un esempio? “Jack venne gettato a terra dal terremoto.” Sto avendo un conato. Sul serio. Perché scrivere così se posso invece dire: ”Il terremoto gettò Jack a terra”? È il terremoto a compiere l'azione, perdiana! È giusto che sia il nostro soggetto! Almeno per me, la differenza di eleganza tra le due è la stessa che passa tra un fast food e un ristorante chic.

Sarò altrettanto spietato e lapidario anche per quanto riguarda gli avverbi: vale la regola secondo la quale non si debba mai dire qualcosa che si possa mostrare. Volete esprimere il disagio e la colpevolezza di un bambino colto in flagrante mentre compieva una marachella? Descrivetelo abbassare lo sguardo, assumere una certa espressione, parlare in un certo modo. Bypasserete un avverbio superfluo e ne gioverà il corpo del testo. Certo allungherete un po’, ma il risultato sarà senza dubbio migliore. Il più delle volte, usiamo gli avverbi per paura di non essere capiti. Non ricordo chi – sono quasi sicuro fosse un autore italiano – scrisse in un articolo online: “Fidatevi di più del lettore.” Almeno nel mio piccolo, io sto cercando di farlo: ormai me ne concedo pochissimi, tanto da riuscire a scrivere un racconto breve di 5, 10 cartelle usandone non più di una manciata al massimo. Sto migliorando. Ah, nel caso non riusciste a fare a meno degli avverbi, una piccola dritta: potete allungare usando un sostantivo per sostituire un avverbio (es. dolcemente --> con dolcezza), è un escamotage un po' balordo che però talvolta – se proprio non potete farne a meno – considero tollerabile. Tuttavia evitate sempre, se potete: suonerà anche meglio, ma state comunque imboccando ancora il lettore, dicendogli in che modo si svolge l'azione. L'obiettivo, se si vuole diventare maestri della prosa, è riuscire a farlo trasparire senza dirlo.

Ultimo ma non ultimo per importanza, le descrizioni. Essendo un divoratore di libri che non si ferma neppure di fronte a fasi descrittive come quelle di Tolkien e Lovecraft, posso dire di avere una certa resistenza all’incline prolissità di alcuni autori, sebbene non ne sia del tutto immune. Mi trovo ancora una volta d’accordo con King, visto che il suo libro sulla scrittura creativa è l’unico che ho letto e col quale ho avuto modo di confrontarmi.
Egli asserisce che la descrizione debba basarsi su alcuni particolari scelti con cura, che siano evocativi di tutto il resto, e che la sua durata e complessità debbano essere indice dell’importanza del personaggio o dell’ambiente che si colloca nella storia. Si tratta di un luogo importante dove si svolgerà gran parte della narrazione o di uno dei protagonisti? Allora potete anche dilungarvi un poco di più. Non lo è? In tal caso, potete evitare di mostrare e limitarvi a raccontare. Qual è la differenza? Quando si racconta, si descrive per sommi capi e senza troppi particolari: ad esempio, il muoversi di un personaggio da una stanza all’altra di una casa. Nel caso del mostrare invece, vi ci si sofferma di più, evocando magari dettagli e sfumature della camminata del protagonista, il suo sguardo che si posa su una cornice sul comò e via dicendo.

Trovare un equilibrio tra le due è fondamentale, in modo da alternare ritmi differenti della narrazione a seconda dell’esigenza della storia, cercando di non tediare troppo il lettore ma allo stesso tempo di non risultare troppo inconsistenti, lasciando un senso di vuoto e spaesamento dovuto alla mancanza di particolari. O peggio ancora, potreste dare la netta impressione di star correndo una maratona per arrivare alla fine. Elmore Leonard sosteneva di togliere tutto ciò che era noioso e che il lettore avrebbe saltato a piè pari: lo trovo un pensiero encomiabile, ma forse un poco monastico, in un certo senso. Come sempre, trovo che la giusta misura sia nel mezzo. Ho letto diversi suoi romanzi e sebbene siano molto scorrevoli, a volte rimpiangevo un po' di sane descrizioni, che erano invece ridotte all'osso.

Al di là di autori un poco prolissi, nella maggior parte dei casi ho trovato – al contrario di ciò di cui è convinto King – che per molti scrittori sia più facile lesinare nelle descrizioni che esagerare, o forse è perché sono cresciuto leggendo testi più densi con fasi descrittive più complesse e mi sia abituato a tale tecnica. In ogni caso – come per il resto degli elementi dello stile – soltanto il vostro giudizio e il tempo speso nella pratica potranno aiutarvi a capire in che quantità dosare l’uno e l’altro, un po’ come sale, olio e altri condimenti in cucina.

Per quanto mi riguarda, una volta usavo più spesso il mostrare perché mi aiuta a visualizzare meglio la scena, ne avevo bisogno in prima persona, perciò mi trovavo sempre costretto a limitarmi, imponendomi di tanto in tanto di raccontare quando mi accorgevo che la storia stava diventando un poco stagnante. O in caso, tagliando dove necessario durante le revisioni successive. Col tempo ho cominciato a pendere dal lato opposto, ovvero usando più spesso il raccontare e mostrando solo quello che considero importante ai fini di una determinata scena, ma ammetto che dipende anche da quello che sto scrivendo e dal mio stato d’animo in relazione all’opera in questione (racconto o romanzo). Tutto sommato, tale cambiamento del mio stile non mi dispiace affatto, in quanto ciò che ho perso in complessità, l'ho riguadagnato in levità, raggiungendo un equilibrio che ai tempi delle mie prime opere avrei solo potuto sognare.

Un esempio di descrizione che eviterei, sono in genere i libri di Terry Brooks. Lo considero un buon autore e un discreto scrittore di fantasy, ma la sua pecca principale – oltre a volte agli eccessivi tempi morti – sono proprio le descrizioni troppo pesanti: si lancia in mirabolanti fasi descrittive con numerosissime figure retoriche – a volte anche un po’ altisonanti – mostrando però di fatto la scena in modo molto generico spazialmente parlando e aggiungendo poi tantissimi particolari slegati tra loro, nemmeno stesse preparando un frullato.

In poche parole, nonostante le figure retoriche e le parecchie righe di descrizione, prevale comunque – almeno per me – un senso di spaesamento generale nel quale riesco a malapena a barcamenarmi nell’immaginare una scena, appesantita dalle troppe similitudini e metafore che rendono il testo barocco. Tale pesantezza però, al contrario di altri scrittori è spesso fine a se stessa e non dà quel senso di meraviglia e di immersione che l’esagerato numero di parole e figure retoriche dovrebbero assicurare. In pratica, sono orpelli inutili quanto è vano lo sforzo dell’autore. King lo definirebbe il classico difetto dello scrittore che resta affascinato dalla sua stessa capacità descrittiva, la qual cosa sarebbe quasi accettabile se almeno le descrizioni facessero il loro dovere. Per esempio, due dei tre libri della trilogia del Verbo e del Vuoto sono ambientati quasi per intero a Hopewell, in particolare nel parco dei Sinnissippi: Brooks lo descrive più volte e quando l’azione vi si svolge rimango sempre confuso, specie visto che l’autore si è ispirato a un luogo della sua infanzia che lui conosce come le sue tasche e la stragrande maggioranza dei lettori – se non tutti – no.

Quando ci si cimenta in una descrizione – per quanto sia chiara la scena nella propria mente – si dovrebbe far conto che chi legge non sia mai stato in quel posto o non ne abbia mai letto (reale o immaginario che sia). Almeno per quanto riguarda me, cerco quindi di essere preciso e usare magari lo stesso numero di parole di Brooks per dare una locazione spaziale ben definita di persone e cose, invece che perdermi in suggestive ma inutili digressioni poetiche (un esempio diametralmente opposto a Brooks sono le descrizioni molto concrete e precise di Barry Eisler). D’altronde questa è narrativa, non poesia e ciò che conta è sempre la storia, come avrete ormai capito già da lettori. In ultimo, considero le figure retoriche – per restare in tema culinario – alla stregua delle spezie: si debbono usare nel posto giusto e nella quantità giusta. Inoltre, sono dell'avviso che sia meglio depennarle che usarne di trite e ritrite, credetemi.
Detto questo, possiamo ora passare alla questione successiva: il quanto.

sabato 12 settembre 2020

Sulla scrittura (Cap. 3: Il contenuto)

 Capitolo III: Il contenuto


Quello che scriverete, dipende in larga misura da voi stessi. Cosa vi appassiona? Cosa vi manda in fibrillazione e leggereste fino alla nausea (e oltre)? E qui non parliamo solo di genere. Nel mio caso, fantasy, fantascienza e horror sono la mia trinità, ma ciò che ci piace non si può ridurre a dei semplici campi semantici.

Mi spiego meglio. Ognuno di noi – chi più chi meno – possiede una certa duttilità, una poliedricità insita nella propria personalità: ha passioni che toccano molti campi differenti. L’abilità dello scrittore sta nell’approfittare di ciò. Se amate la fantascienza e il calcio, potreste voler scrivere di un romanzo futuristico in cui i vostri protagonisti sono anche dei giocatori di pallone professionisti e l’ambito in cui li collocate vi darebbe modo di scatenarvi con tutte le idee che vi vengono in mente. Oppure, come diceva Ennio, avete magari il gusto dell’orrido ma amate allo stesso tempo le storie d’amore? È presto detto: infilate del romanticismo in una situazione horror e vedete cosa ne viene fuori. Gli esempi sono pressoché sterminati e l’unico limite è la vostra fantasia.

Bene, avete una mezza idea di cosa volete scrivere… ma è davvero sufficiente? In realtà, no. A prescindere da quanto amiate un genere letterario e quanto ne sappiate a riguardo, sarebbe sempre bene fare un minimo di ricerca e leggere molto di tale genere, in modo da ridurre al minimo le vaccate che potreste scrivere. Per esempio, avere un minimo di nozioni scientifiche e poter vantare molta esperienza in fatto di film fantascientifici, nonché aver letto libri sul genere, vi darebbe sicuramente un vantaggio per scrivere di fantascienza. Magari apprendere anche un po’ di astronomia potrebbe tornare utile e la somma delle vostre conoscenze vi permetterebbe di costruire in linea di massima qualcosa di più credibile; di dare un sapore di realismo al tutto grazie alle nozioni apprese.

Naturalmente deve trattarsi di campi per voi di interesse o che fanno comunque parte della vostra fonte di scibile. Svolgere ricerche troppo approfondite rischia di affossare il resto e trasformare il vostro lavoro in un manuale più che un’opera di narrativa, di qualunque genere trattiate (a tal proposito mi viene in mente Moby Dick, che ho trovato così pesante e palloso da interrompere a metà la lettura, nonostante sia considerato un classico).

Anche nel caso in cui voleste riproporre un qualcosa che si è visto e rivisto, come ad esempio i lupi mannari, non sarò certo io a gridarvi: “Siete banali!” Tutt’altro. Sotto questo aspetto sono molto meno critico di tanti altri e a mio avviso, paradossalmente, se volessimo creare qualcosa di originale a tutti i costi – in qualunque ambito – potremmo non esserne capaci comunque.

A volte la novità sboccia da una pianta vecchia, vista da una differente prospettiva o con una diversa gradazione di luce.
Parola mia. La chiave sta nel riuscire a reinterpretare un qualcosa di trito per confezionare una ricetta del tutto nuova, rendendola particolare col proprio tocco personale. Proprio come fanno i cuochi. Per questo motivo ci tenevo a sottolineare l’importanza della vostra cultura generale e dei vostri interessi, perché saranno quelli a fare spesso la differenza, nel caso l’opera non sia un fulgido esempio di originalità. In conclusione, come ho accennato nel primo capitolo, nella maggioranza dei casi la storia e il tocco personale sono in genere in grado di sopperire a molte mancanze.
Siamo al punto successivo della lista: il come. Nel prossimo, più articolato capitolo parleremo dello stile.