lunedì 19 ottobre 2020

Sulla scrittura (Cap. 9: I personaggi)

Capitolo IX: I personaggi

Anzitutto, ci tengo a fare una distinzione tra quelle che sono le diverse categorie di personaggio. Si tratta in realtà di raggruppamenti spesso cangianti, almeno per me, ma ci arriveremo tra poco. Ci sono prima di tutto i protagonisti, eroi ed eroine, attraverso i quali in genere si mostra la storia (analizzeremo in un secondo momento i punti di vista). Essi possono a loro volta dividersi appunto tra “eroi” e “antieroi”, questi ultimi sono meno idealizzati e spesso hanno una certa dose di cattiveria dentro, quale che ne sia il motivo. Ciò li rende spesso più interessanti dei protagonisti senza macchia, in parte perché sono più complessi e imprevedibili, in parte perché virando verso una gradazione di grigio nella visione di bene e male diventano più realistici; in certa misura anche perché forse incarnano desideri e azioni riprovevoli che nel nostro subconscio vorremmo compiere ma che spesso sono bloccate dalla coscienza o da un codice morale.

Ci sono poi gli antagonisti, la cui natura può variare a seconda del grado di dicotomia tra bene e male che si vuole rappresentare. I “cattivi” sono forse i più interessanti ma allo stesso tempo i più difficili da dipingere, in parte perché svelare tutti i loro piani e i loro pensieri vi costringerebbe inevitabilmente a rinunciare a qualunque colpo di scena, in parte perché immedesimarsi in un malvagio è sempre più difficile, o almeno lo è per me. In “Misery”, per King è stato il contrario: ha trovato più facile – e anche più divertente, e su questo non ho dubbi – immedesimarsi nell’infermiera pazza Annie Wilkes piuttosto che nello scrittore suo prigioniero, Paul Sheldon. Credo sia un fattore soggettivo, che può dipendere anche dal genere in cui vi barcamenate o dalla singola storia, a ogni modo ho sempre riscontrato una certa difficoltà nel cercare di non rendere stereotipati i miei antagonisti.

Trovo che non ci sia niente di peggio che presentare un cattivo che dia la netta impressione di essere soltanto uno dei tanti spauracchi a cui siamo abituati: l’antagonista dovrebbe essere invece complesso, volendo persino disturbato, avere una visione del mondo diametralmente opposta ai “buoni”, ma allo stesso tempo propugnare idee o ideali che il lettore possa in certa misura condividere. Insomma, un cattivo non poi così cattivo, se giudicato da una diversa prospettiva.

Questo mio pensiero si può riassumere perfettamente nella frase del vampiro Lestat di Anne Rice, quando – quasi con il candore di un pargoletto – dichiara: “Il Male è un punto di vista”. Anche nel suo modo di vedere i vampiri, definendoli le creature più simili a Dio, Lestat segue in un certo senso una logica inoppugnabile per Louis; Lestat non è un “cattivo”, è Louis nel primo libro a dipingerlo come tale, in realtà è soltanto un individuo che vede le cose in modo distaccato, privo del rimorso che prova invece il suo allievo. Proprio come un predatore in natura uccide per semplice bisogno e non sente alcun senso di colpa. E per ironia della sorte è questa differenza che spinge Louis a trattare Lestat come un mostro, sebbene non lo sia. Bisogna leggere poi il secondo volume, che Lestat narra in prima persona, per rendersi conto del suo passato e per comprenderlo davvero, in modo da capire come la visione di Louis non fosse proprio imparziale.

Da un punto di vista prettamente psicologico, a mio avviso Lestat è uno degli antagonisti/antieroi meglio riusciti della letteratura moderna. Per non parlare dell'incredibile madre dei vampiri, Akasha, un perfetto esempio di antagonista dai validi ideali, per quanto distorti. Credo che creare degli antagonisti memorabili sia il primo passo verso la grandezza, poiché assieme agli antieroi, ritengo che siano il tipo di personaggio più interessante, anche se la maggior parte dei lettori – o almeno così mi sembra – continuano a preferire i protagonisti eroici e a identificarsi con essi.

Abbiamo poi i personaggi secondari, che spesso intervengono aggiungendo credibilità al contesto, interagendo coi protagonisti, fornendo risvolti nel corso della narrazione e molto altro, ma non vengono approfonditi come i primi. Per quanto possano sembrare “tappezzeria”, non si dovrebbe mai sottovalutare l'importanza dei personaggi secondari e la loro utilità ai fini della storia e dello sviluppo dei protagonisti.

Infine, ci sono quelli che io chiamo “i circostanziali”. Tengo a precisare che questa categoria – del tutto estranea al pensiero accademico della scrittura creativa – è una mia classificazione personale. I circostanziali sono quei personaggi che nascono come individui perfino più superficiali dei secondari, e che all’inizio nella mia mente non sono altro che figure indistinte. La maggior parte delle volte rimangono tali – come un passante in una strada trafficata che attira la mia attenzione per un particolare, come ciò che indossa o come cammina – altre volte, poche a dire il vero, succede qualcosa di inaspettato. L’individuo, del tutto marginale, balza con violenza fuori dal suo cantuccio per reclamare un posto nella storia.

È stato il caso del poliziotto Jake Denver nel mio romanzo fantascientifico (inedito) “Le rovine”, che doveva essere soltanto l’anonimo autista di un blindato della polizia ed è divenuto invece addirittura un personaggio secondario! Tutto è nato da un suo semplice gesto che mi ha colpito: togliersi l’elmetto della sua tuta delle forze speciali perché non sopportava di tenerlo e quando il suo superiore è tornato lo ha ripreso severamente. Questo semplice episodio (che non avevo affatto preventivato) ha innescato una serie di avvenimenti che hanno portato Jake a farsi strada nella storia a gomitate tra gli altri personaggi e a diventare a sua volta un secondario, e le sue azioni hanno avuto un impatto perfino sulla storia! Credo possa succedere anche per un secondario di diventare un co-protagonista, ma mai un protagonista vero e proprio. Mi è accaduto anche – nel corso di più di un libro – che in un successivo arco narrativo, un vecchio protagonista diventasse un co-protagonista o addirittura un secondario o viceversa, a seconda della volubilità della storia e del carattere che il personaggio tira fuori, come nel caso del mio poliziotto. Lui ne ha tirato fuori abbastanza da uscire dall’indistinta foschia dei “circostanziali” per divenire un secondario, ma non abbastanza da farne un co-protagonista.

In quest’ottica, come accennavo, i personaggi sono spesso un materiale cangiante tanto quanto la storia e come tali bisogna lasciarli a briglia sciolta, liberi di agire ed esprimersi: come sempre anche in questo sta il raccontare la verità. Alla stessa maniera, il loro modo di agire, parlare e pensare deve essere coerente con ciò che sappiamo di loro, persino eventuali contraddizioni interiori possono essere viste come “coerenti”, in base a ciò che stiamo raccontando e ai conflitti interni del personaggio in questione. Sempre in “Le rovine”, la mercenaria Viper spesso si esprime come uno scaricatore di porto, così come i suoi colleghi, mentre Karen – la segretaria del protagonista – è agli antipodi rispetto a lei. Non a caso, la trova sgradevole e volgare.

Dovete conoscere il vostro personaggio, non solo nei sentimenti e nei pensieri, ma anche nel suo modo di parlare e rapportarsi con gli altri, per costruire un individuo credibile. Se parlate di un ex galeotto, i moralisti farebbero bene a tacere se gli mettete in bocca una certa dose di turpiloquio e barzellette sconce: è il personaggio, è parte della sua natura, non potete – e non dovete! – mai mentire su questo. Se mai acquisterete una copia di “On Writing”, vi assicuro che ritroverete molti di questi concetti tra le righe di King, di cui condivido quasi in toto il pensiero.
Il realismo, ma in generale l'onestà intellettuale, viene sempre prima del "politically correct". Sempre.

Thomas Hardy considerava i personaggi – anche i meglio riusciti – solo una pallida imitazione dell’individuo più insignificante del mondo reale. Fu uno dei motivi che lo spinsero a dedicarsi alla poesia verso la fine della sua vita. Non posso non trovarmi d’accordo, tuttavia, al posto suo non mi sento di rinunciare al mio obiettivo di creare personaggi sempre più complessi e credibili, perché anche se somiglieranno sempre e soltanto a “mucchi d’ossa”, il mio sarà un eterno tendere verso la perfezione senza mai raggiungerla, come succede per l’essere umano in tutto ciò che fa. E meno somiglieranno a mucchi d’ossa, più potrò dirmi soddisfatto.

Trovo che l’apoteosi del genio nella creazione di un personaggio sia riuscire non solo nella sua caratterizzazione, ma anche nel fornire al lettore dei tratti distintivi che riconducano in maniera inequivocabile a lui: ad esempio una frase ricorrente, una gestualità, un modo di vestire, un’opinione particolarmente bislacca riguardo a qualcosa. Le possibilità, come sempre, sono infinite.

Ad esempio, in “Mucchio d’ossa” di King – il cui titolo è stato ispirato proprio dalla massima di Hardy, se ve lo state chiedendo – c’era una frase che la moglie defunta del protagonista era solita dirgli quando finiva di scrivere un romanzo: “E questa è una cosa buona, no?” Ecco, poco dopo aver letto il libro un conoscente mi disse una frase quasi uguale e mi fece pensare immediatamente a Johanna, tanto da farmi rabbrividire come se si trattasse di una persona che avevo conosciuto davvero. Così come l’espressione di Detta Walker nella saga di King “La Torre Nera” Stinti cazzuti, per riferirsi agli uomini bianchi. Si tratta, in qualche modo, di instaurare un rapporto così complesso con i personaggi da riuscire a sondarne le profondità più recondite e trovare ciò che si nasconde tra le pieghe della loro personalità. Secondo me, quando vi si riesce, si giunge agli antipodi rispetto ai mucchi d’ossa di Hardy. Si comincia ad avere l’impressione di leggere di persone reali. Ed è questo in fondo l’obiettivo, no? La narrativa è piena zeppa di personaggi bidimensionali o addirittura così piatti da risultare unidimensionali, proprio per la difficoltà di renderli credibili.

Se dovessi usare un’immagine, direi che si tratta di un procedimento simile a quello descritto nella Genesi, in cui Dio infonde il soffio vitale nelle sue creazioni. Per me, rendere un personaggio realistico, elevarlo da mucchio d’ossa a qualcosa di più, significa proprio questo. Vuol dire infondere la propria vita in lui – o lei – attraverso i propri sentimenti e pensieri, le proprie credenze, finché non si comincia a scoprire che il personaggio ne possiede di sue e che spesso non coincidono con quelle del suo creatore. È allora che comincia il passo successivo e la creazione diventa autonoma, quasi padrona del suo stesso destino.

Le prossime tematiche che affronteremo sono il punto di vista e il tipo di narratore. 

Nessun commento:

Posta un commento