Capitolo IV: Lo stile
Okay, togliamoci subito questo dente. Non ha importanza se durante le ore di italiano pensavate ai fatti vostri, dormivate o vi scaccolavate, perché la grammatica – quella vera – non si impara sui banchi di scuola, con l’analisi grammaticale o quella logica. Quelle, cari miei, sono nozioni senza dubbio utili, da stratificare finché si è molto giovani, ma la vera arte dello scrivere s’impara altrove. Come il basket migliore si impara sui campetti di strada e non sul parquet – e posso dirlo con cognizione di causa – così lo scrivere non s’impara nei seminari di scrittura creativa o a scuola. Si impara scrivendo. Compilando pagine su pagine, una maledetta parola dopo l’altra. Lo dimostra il fatto che nonostante fossi fresco di liceo, in quel periodo la mia prosa era ben più prolissa e legnosa rispetto ad ora. Da allora posso dire di aver compiuto passi da gigante.
Ve ne chiederete il perché e sarò felice di fornirvi una risposta. Non c’è un grande mistero dietro, semplicemente quando si scrive – che sia un bigliettino d’amore, la lista della spesa o un tema in classe – lo si fa sempre di getto, non si sta a pensare a dove schiaffare un predicato o a quanti aggettivi si possano accumulare su uno stesso nome. Si scrive e basta. Al contrario di ciò che pensano molte pompose teste di c****, si tratta di un atto puramente creativo come il comporre una canzone improvvisando, non è una scienza esatta e almeno in prima stesura non ci si può preoccupare troppo della forma togliendo attenzione ai contenuti.
Si migliorerà dunque con la pratica e con essa soltanto, non leggendo voluminosi tomi sulla scrittura creativa. Un libro simile – specie se scritto da un bravo autore – può essere utile per confrontarsi con qualcun altro, ma non può compiere miracoli, anzi. Fossilizzandosi troppo su concetti teorici si rischia di peggiorare le cose, facendo proprie le idee e le nozioni di altri invece di imparare sperimentando di persona con la pratica.
Le uniche cose di cui preoccuparsi al di fuori di eventuali refusi o errori ortografici – con i quali non dovreste avere problemi se state leggendo queste righe, o almeno spero – sono la punteggiatura e la costruzione logica (sensata) della frase, il resto vien da sé e ci sarà sempre tempo per correre ai ripari durante le numerose revisioni. A volte anche dopo la seconda o terza bozza mi capita ancora di imbattermi in costruzioni di frasi infelici oppure precisazioni pleonastiche, ma è giusto così: la perfezione non esiste e non c’è neppure modo di evitare tanti errori, perché durante la prima stesura state raccontando la vostra storia e la state raccontando a voi stessi. È normale sbagliare, forse persino giusto. Quindi se non avete grossi problemi con la grammatica, il più è fatto: avere già un testo scritto in modo corretto e abbastanza scorrevole è un ottimo inizio.
Dopodiché, il vocabolario: anche in questo caso sono dell’opinione che come dicevano gli antichi, la virtù sia nel mezzo. Non cercate di arricchire il testo con paroloni altisonanti solo per impressionare, né viceversa siate troppo semplici, tanto da sembrare bambini delle medie o peggio. Scoprirete ad ogni modo che leggendo molto il vostro vocabolario si amplierà senza nemmeno accorgervene e vi ritroverete ad usare con sempre maggior frequenza termini più ricercati – di cui ignoravate l’esistenza fino a pochi minuti prima di imbattervi in essi – ma non per questo per forza aulici. Ne gioverà anche il corpo del testo, in quanto conoscere molti sinonimi vi aiuterà ad evitare inutili e tediose ripetizioni (conosco lettori per i quali esse sono il peggiore dei crimini da parte degli autori, e come dar loro torto?). Ad esempio, quanti di voi conoscono la parola ara? L’ho scoperta anni fa perché necessitavo a tutti i costi di un sinonimo di "altare" per evitare un’antiestetica reiterazione (avete notato che non ho “riutilizzato ripetizione”?), nella riga successiva. In ogni caso, se non state cercando di diventare best seller, è inutile ammazzarvi di fatica per migliorare il vostro stile e il vocabolario a tutti i costi. Accontentatevi di ciò che avete, fintanto che sia pulito, scorrevole e gradevole. E naturalmente, che non sembri scritto da un ragazzino.
Ad esempio, (l'ormai tartassata da me e da altri) Licia Troisi ha uno stile molto semplice e pulito: è gradevole e scorrevole, ma la sua semplicità è davvero spinta all’estremo. Le figure retoriche sono quasi inesistenti, i pensieri dei protagonisti troppo semplificati, a volte sembra quasi di leggere un libro della serie: ”Geronimo Stilton”. Non c’è quella complessità che ci si aspetterebbe dalla mente di una persona reale, insomma. Con questo non intendo dire che tutti i vostri personaggi debbano rivelarsi dei novelli Nietzsche o Cartesio, né che dobbiate infarcire le considerazioni di eroi e antagonisti di puro filosofeggiare fine a se stesso, che considero il corrispettivo intellettuale dell’edonismo (ovvero far sì che senso critico e retorica si pratichino la fellatio a vicenda). Quello che voglio dire, è che trovo necessario fornire al lettore non solo un’introspezione emotiva, ma anche il senso critico dei personaggi. Un individuo privo di senso critico non è molto diverso da un automa, non trovate? Per concludere, un conto è partire con il target prestabilito dei bambini, un conto è che vogliate scrivere per una fascia di lettori più ampia.
Come detto però – per tornare al vocabolario – anche cadere nell’eccesso opposto è altrettanto sbagliato: ad esempio, Lovecraft aveva sì una capacità descrittiva fuori dal comune, ma i suoi eccessivi tecnicismi rendono spesso la lettura pesante e a volte perfino snervante. Se ogni due o tre pagine – o anche meno – il lettore dovesse trovarsi costretto a consultare il vocabolario (e credetemi, per trovare “paleogenico” sono dovuto ricorrere alla Treccani!) sarebbe di certo un punto perso per voi. Per quanto riguarda invece la punteggiatura, a volte con essa ho problemi e solo innumerevoli riletture del testo mi permettono di sistemare eventuali periodi troppo brevi o troppo lunghi; il mio consiglio è: rileggete, rileggete rileggete. Farlo ad alta voce potrebbe essere una buona idea.
Quanto alla costruzione della frase e la durata dei paragrafi, sono del tutto soggettivi e almeno qui, non vi posso aiutare. Si tratta di trascrivere il ritmo della narrazione che ognuno ha nella testa, il modo in cui ciascuno sente le parole nella propria mente, come sente pronunciare i dialoghi diretti dei personaggi, con che cadenza, a che velocità e con quante pause.
Nel mio caso, vedo spesso i personaggi muoversi o assumere diverse espressioni nel corso di un dialogo, detesto infatti gli autori che al contrario ricorrono ai botta e risposta troppo lunghi o li usano troppo spesso perché a volte – di solito quando gli interlocutori sono più di due – mi capita di perdere anche il filo di chi dice cosa. C’è bisogno di fluidità nel dialogo e se gli astanti sono tre o anche più, sta allo scrittore rendere la conversazione quanto più chiara possibile. Naturalmente risulta invece molto più facile nei botta e risposta tipici degli interrogatori delle forze dell’ordine nei thriller, specie se l’autore è bravo – come Glenn Cooper – nel rendere la cadenza: in quei casi mi sembra quasi di star guardando una puntata di una serie poliziesca. Perciò scoprirete che il più delle volte sarà il filo stesso della narrazione a dettare il passo e vi sentirete un po’ come degli amanuensi, che si limitano a ricopiare ciò che hanno nella testa.
Il discorso del ritmo vale per tutto il corpo del testo, ma le singole frasi secondo me meritano un piccolo approfondimento. Per King, l’unità di misura è senz’altro il paragrafo. Per me è la frase, il paragrafo viene sempre dopo, quando ho “assemblato” varie frasi in un unico contesto. Mi riesce sempre più facile barcamenarmi nella giungla della grammatica e della narrazione se organizzo i pensieri una frase per volta e in certi casi anche così, durante le correzioni successive, a volte scopro di averne scritte di poco chiare o troppo lunghe, che magari nella foga del momento mi erano sembrate cristalline.
In tali situazioni ricorro senza alcuna remora a quel tanto che basta di frammentazione – ci arriveremo tra poco – per restituire fluidità al testo. Potreste scoprire che per voi il metro di misura è un altro ancora, tuttavia la frase ha in sé – almeno secondo me – un’intrinseca importanza, perché un paragrafo altro non è che una serie di frasi, così come una frase è un insieme di parole.
Per funzionare, la frase deve essere di senso compiuto e fornire informazioni, che possono essere una descrizione, un concetto, un pensiero o un’azione. L’unico modo per capire quando usare i due punti, il punto e virgola, quando usare la tecnica della frammentazione – ho scoperto che è ottima per spezzare periodi troppo contorti e restituire una certa malleabilità a punti troppo densi – o quando ci si può permettere una subordinata, è la pratica continua. Quasi sempre vi stupirete nel constatare che le frasi semplici sono quelle che funzionano meglio. Già, proprio come il vecchio Hemingway. Molto tempo fa – ai tempi dei primi “romanzi”– arrivavo addirittura a scrivere frasi di una decina di righe con anche due o tre subordinate. Ora la considero pura follia, se non addirittura un’idea frutto di una grave demenza congenita. Al di fuori di questo saggio – quando tratto la narrativa vera e propria e non necessito di approfondire spesso dei concetti astratti – non scrivo mai più di una subordinata in una sola frase, per quanto i primi tempi la tentazione mi venisse ancora.
Inoltre, ho scoperto che la lunghezza media migliore che si possa desiderare è di circa tre righe. È come il peso forma per chi pratica body building: una frase di massimo tre righe non è così breve da non poter trasmettere concetti un minimo elaborati, ma allo stesso tempo non è così lunga da poter contenere errori abissali e irreparabili (a meno che naturalmente voi non siate un vero disastro, in tal caso, non posso proprio aiutarvi). Certo, a volte possono venir fuori frasi un poco più lunghe, diciamo quattro o cinque righe, ma mai di più, se si procede con metodo.
La frammentazione – come ho accennato poc’anzi – è uno strumento utile non solo per rendere più fluida la narrazione ma anche per dare risalto a qualche punto in particolare. Ricordate inoltre che finché è di senso compiuto, una frase può constare anche di una parola o due, se è concettualmente legata a quanto avete appena detto in quella precedente. Un esempio veloce? “Scosse la testa. Stava andando tutto alla malora. Alla malora!” D’accordo è penoso, ma qui ci interessa il concetto. In questo caso la frammentazione non ci ha solo reso agevole il testo, ma ci ha anche fatto soffermare sulle considerazioni del personaggio su come gli stanno andando le cose, evidenziando con l’ultima frase – in una ripetizione voluta – “alla malora”.
Si tratta di una tecnica efficace ma anche di un’arma a doppio taglio: abusarne può portare ad uno stile troppo sincopato che alla lunga farà diventare il lettore nevrotico (o almeno, a me succede di diventarlo). Sarebbe sempre meglio usarla con moderazione, per evitare di fare la fine di autori come Lissa Price, i cui ebook sono scritti tutti, per tutta la loro estensione, in questo stile. Sono disposto a credere che forse questo sia il ritmo che sente lei nella testa quando scrive, ma posso assicurarvi che la maggior parte degli altri scrittori – me compreso – non la imita.
Ora vorrei soffermarmi un momento su un paio di argomenti sui quali mi trovo d’accordo con King in quanto afferma nel suo “On Writing”: la forma passiva e gli avverbi. Mi capita fin troppo spesso di trovare delle forme passive e quando accade, nel leggerle mi si rivoltano le budella. Potreste pensare che mi sia successo solo con degli esordienti, ma in realtà, di recente rileggendo qualche vecchio libro di Terry Brooks ne ho trovate sparse anche lì, segno che siamo umani dopotutto e forse a volte capita di usarle senza che ce ne rendiamo neppure conto. Persino King stesso, in lavori di dieci, quindici anni prima rispetto a “On Writing” – che è stato pubblicato nel 2000 – abusava di avverbi e forme passive in grandi romanzi come “Shining”, “Carrie” e “Tommyknockers”. Penso che col tempo si sia reso conto da solo di questo, non certo grazie a dei testi sulla scrittura creativa! Un’altra a cadere nella trappola è Anne Rice, perché forme passive e avverbi sono tra i suoi pochi e più gravi difetti, a mio avviso: le sue Cronache dei Vampiri ne sono piene. E che dire di George R.R. Martin nelle sue Cronache del Ghiaccio e del Fuoco? Con gli avverbi è un peccatore comune, ma una frase su due (o al massimo su tre) è una forma passiva. Sono riuscito a sopportarlo solo perché in compenso come scrittore ha altri pregi.
A volte scopro con orrore forme passive anche nei miei scritti e faccio di tutto, perfino stravolgere o riscrivere per intero la frase, pur di liberarmene. Mi dà un senso di temporanea infelicità quando non riesco a esprimere lo stesso concetto ricostruendo la frase in modo da escludere avverbi o forme passive, ma per fortuna alla fine ci si riesce quasi sempre. Se dovessi trovare un’analogia per descrivere la sensazione, direi che mi fa sentire un po’ come quando non riesco ad allineare tutte le tessere di uno stesso colore su una faccia del cubo di Rubik. Pura frustrazione.
In ogni caso, la frase passiva non solo risulta sempre più debole rispetto a quella attiva, ma ha anche un suono sgradevole, come le dissonanze in ambito musicale. La stonatura si avverte subito ed è come sentire delle unghie graffiare su una lavagna. Un esempio? “Jack venne gettato a terra dal terremoto.” Sto avendo un conato. Sul serio. Perché scrivere così se posso invece dire: ”Il terremoto gettò Jack a terra”? È il terremoto a compiere l'azione, perdiana! È giusto che sia il nostro soggetto! Almeno per me, la differenza di eleganza tra le due è la stessa che passa tra un fast food e un ristorante chic.
Sarò altrettanto spietato e lapidario anche per quanto riguarda gli avverbi: vale la regola secondo la quale non si debba mai dire qualcosa che si possa mostrare. Volete esprimere il disagio e la colpevolezza di un bambino colto in flagrante mentre compieva una marachella? Descrivetelo abbassare lo sguardo, assumere una certa espressione, parlare in un certo modo. Bypasserete un avverbio superfluo e ne gioverà il corpo del testo. Certo allungherete un po’, ma il risultato sarà senza dubbio migliore. Il più delle volte, usiamo gli avverbi per paura di non essere capiti. Non ricordo chi – sono quasi sicuro fosse un autore italiano – scrisse in un articolo online: “Fidatevi di più del lettore.” Almeno nel mio piccolo, io sto cercando di farlo: ormai me ne concedo pochissimi, tanto da riuscire a scrivere un racconto breve di 5, 10 cartelle usandone non più di una manciata al massimo. Sto migliorando. Ah, nel caso non riusciste a fare a meno degli avverbi, una piccola dritta: potete allungare usando un sostantivo per sostituire un avverbio (es. dolcemente --> con dolcezza), è un escamotage un po' balordo che però talvolta – se proprio non potete farne a meno – considero tollerabile. Tuttavia evitate sempre, se potete: suonerà anche meglio, ma state comunque imboccando ancora il lettore, dicendogli in che modo si svolge l'azione. L'obiettivo, se si vuole diventare maestri della prosa, è riuscire a farlo trasparire senza dirlo.
Ultimo ma non ultimo per importanza, le descrizioni. Essendo un divoratore di libri che non si ferma neppure di fronte a fasi descrittive come quelle di Tolkien e Lovecraft, posso dire di avere una certa resistenza all’incline prolissità di alcuni autori, sebbene non ne sia del tutto immune. Mi trovo ancora una volta d’accordo con King, visto che il suo libro sulla scrittura creativa è l’unico che ho letto e col quale ho avuto modo di confrontarmi.
Egli asserisce che la descrizione debba basarsi su alcuni particolari scelti con cura, che siano evocativi di tutto il resto, e che la sua durata e complessità debbano essere indice dell’importanza del personaggio o dell’ambiente che si colloca nella storia. Si tratta di un luogo importante dove si svolgerà gran parte della narrazione o di uno dei protagonisti? Allora potete anche dilungarvi un poco di più. Non lo è? In tal caso, potete evitare di mostrare e limitarvi a raccontare. Qual è la differenza? Quando si racconta, si descrive per sommi capi e senza troppi particolari: ad esempio, il muoversi di un personaggio da una stanza all’altra di una casa. Nel caso del mostrare invece, vi ci si sofferma di più, evocando magari dettagli e sfumature della camminata del protagonista, il suo sguardo che si posa su una cornice sul comò e via dicendo.
Trovare un equilibrio tra le due è fondamentale, in modo da alternare ritmi differenti della narrazione a seconda dell’esigenza della storia, cercando di non tediare troppo il lettore ma allo stesso tempo di non risultare troppo inconsistenti, lasciando un senso di vuoto e spaesamento dovuto alla mancanza di particolari. O peggio ancora, potreste dare la netta impressione di star correndo una maratona per arrivare alla fine. Elmore Leonard sosteneva di togliere tutto ciò che era noioso e che il lettore avrebbe saltato a piè pari: lo trovo un pensiero encomiabile, ma forse un poco monastico, in un certo senso. Come sempre, trovo che la giusta misura sia nel mezzo. Ho letto diversi suoi romanzi e sebbene siano molto scorrevoli, a volte rimpiangevo un po' di sane descrizioni, che erano invece ridotte all'osso.
Al di là di autori un poco prolissi, nella maggior parte dei casi ho trovato – al contrario di ciò di cui è convinto King – che per molti scrittori sia più facile lesinare nelle descrizioni che esagerare, o forse è perché sono cresciuto leggendo testi più densi con fasi descrittive più complesse e mi sia abituato a tale tecnica. In ogni caso – come per il resto degli elementi dello stile – soltanto il vostro giudizio e il tempo speso nella pratica potranno aiutarvi a capire in che quantità dosare l’uno e l’altro, un po’ come sale, olio e altri condimenti in cucina.
Per quanto mi riguarda, una volta usavo più spesso il mostrare perché mi aiuta a visualizzare meglio la scena, ne avevo bisogno in prima persona, perciò mi trovavo sempre costretto a limitarmi, imponendomi di tanto in tanto di raccontare quando mi accorgevo che la storia stava diventando un poco stagnante. O in caso, tagliando dove necessario durante le revisioni successive. Col tempo ho cominciato a pendere dal lato opposto, ovvero usando più spesso il raccontare e mostrando solo quello che considero importante ai fini di una determinata scena, ma ammetto che dipende anche da quello che sto scrivendo e dal mio stato d’animo in relazione all’opera in questione (racconto o romanzo). Tutto sommato, tale cambiamento del mio stile non mi dispiace affatto, in quanto ciò che ho perso in complessità, l'ho riguadagnato in levità, raggiungendo un equilibrio che ai tempi delle mie prime opere avrei solo potuto sognare.
Un esempio di descrizione che eviterei, sono in genere i libri di Terry Brooks. Lo considero un buon autore e un discreto scrittore di fantasy, ma la sua pecca principale – oltre a volte agli eccessivi tempi morti – sono proprio le descrizioni troppo pesanti: si lancia in mirabolanti fasi descrittive con numerosissime figure retoriche – a volte anche un po’ altisonanti – mostrando però di fatto la scena in modo molto generico spazialmente parlando e aggiungendo poi tantissimi particolari slegati tra loro, nemmeno stesse preparando un frullato.
In poche parole, nonostante le figure retoriche e le parecchie righe di descrizione, prevale comunque – almeno per me – un senso di spaesamento generale nel quale riesco a malapena a barcamenarmi nell’immaginare una scena, appesantita dalle troppe similitudini e metafore che rendono il testo barocco. Tale pesantezza però, al contrario di altri scrittori è spesso fine a se stessa e non dà quel senso di meraviglia e di immersione che l’esagerato numero di parole e figure retoriche dovrebbero assicurare. In pratica, sono orpelli inutili quanto è vano lo sforzo dell’autore. King lo definirebbe il classico difetto dello scrittore che resta affascinato dalla sua stessa capacità descrittiva, la qual cosa sarebbe quasi accettabile se almeno le descrizioni facessero il loro dovere. Per esempio, due dei tre libri della trilogia del Verbo e del Vuoto sono ambientati quasi per intero a Hopewell, in particolare nel parco dei Sinnissippi: Brooks lo descrive più volte e quando l’azione vi si svolge rimango sempre confuso, specie visto che l’autore si è ispirato a un luogo della sua infanzia che lui conosce come le sue tasche e la stragrande maggioranza dei lettori – se non tutti – no.
Quando ci si cimenta in una descrizione – per quanto sia chiara la scena nella propria mente – si dovrebbe far conto che chi legge non sia mai stato in quel posto o non ne abbia mai letto (reale o immaginario che sia). Almeno per quanto riguarda me, cerco quindi di essere preciso e usare magari lo stesso numero di parole di Brooks per dare una locazione spaziale ben definita di persone e cose, invece che perdermi in suggestive ma inutili digressioni poetiche (un esempio diametralmente opposto a Brooks sono le descrizioni molto concrete e precise di Barry Eisler). D’altronde questa è narrativa, non poesia e ciò che conta è sempre la storia, come avrete ormai capito già da lettori. In ultimo, considero le figure retoriche – per restare in tema culinario – alla stregua delle spezie: si debbono usare nel posto giusto e nella quantità giusta. Inoltre, sono dell'avviso che sia meglio depennarle che usarne di trite e ritrite, credetemi.
Detto questo, possiamo ora passare alla questione successiva: il quanto.
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